Mario Monicelli è stato ospite ad Acri in un soleggiato pomeriggio di Ottobre per il Premio Vincenzo Padula. La sua lucidità e le sue frasi taglienti sono state una sorpresa per tutti. Dopo aver ricevuto il premio alla carriera il regista ha acconsentito a questa breve chiacchierata. Arrivato alla seconda domanda si è scusato, era molto stanco e voleva ritirarsi in albergo, mi ha comunque promesso che avrebbe risposto su carta, visto che non ha dimestichezza con la posta elettronica. Puntuale, cinque giorni dopo mi venne recapitato un foglietto riempito dalla scrittura svolazzante del regista. Leggete quello che ha da dire sui festival e sul cinema in genere. Novanta anni e non sentirli (banale ma vero).
Lei è uno degli ultimi grandi registi italiani, quali sono invece i suoi preferiti fra i giovani?
Non vedo una situazione esaltante per il cinema italiano contemporaneo, diciamo comunque che trovo particolarmente bravi ed incisivi Giuseppe Sorrentino, Silvio Soldini, Vincenzo Marra e Matteo Garrone. Anche se Garrone non è esattamente un regista di commedie.
Due dei suoi film più apprezzati (Caro Michele ed Un borghese piccolo piccolo) sono tratti da romanzi. C’è un libro che avrebbe voluto rendere attraverso un film e che non è riuscito a realizzare?
Uno c’è. È la storia di Lazarillo De Tormes, un romanzo picaresco spagnolo con qualche analogia con Brancaleone. È una storia non molto conosciuta, anche il suo autore ad oggi non ha un nome, ma è una storia che alla fine del ‘500, in Spagna, fu messa al bando dall’inquisizione per la pesante ironia che faceva sul Papa e su alcuni ordini monastici. Sarebbe attuale anche adesso.
La ritengono il codificatore di quella che chiamano commedia all’italiana (e che ormai ha confini vastissimi). Per lei che cos’è una buona commedia?
Vedi, la commedia deve contenere in sé momenti tragici e momenti molto leggeri, in questo senso credo che il mio Parenti serpenti sia esplicativo di quello che voglio dirti. Quando si porta in scena una commedia bisogna essere molto attenti a cogliere i vari aspetti sociali del periodo che si va a rappresentare.
Ha vissuto gli anni del fascismo, il dopoguerra e la ricostruzione, poi gli anni di piombo e l’ascesa e la caduta della prima repubblica. Ha mai pensato di trarre un film, o un documentario, per ripercorrere la storia recente della nostra nazione?
No! Assolutamente, non mi piace fare i film storici tout court. Però, di volta in volta, nelle mie pellicole ho spesso portato in scena i cambiamenti e le piccole e grandi nevrosi che hanno scosso l’Italia.
Ha girato un episodio di un film (Capriccio all’italiana, nel 1968) collettivo dove fra gli altri c’era anche Pasolini a dirigere un episodio. A più di trent’anni dalla sua morte crede ci sia un certo ostracismo della cultura ufficiale nei confronti di Pasolini?
Sì, fin da quando era in vita non era ben visto persino dal PCI, poi la sua volontà di andare comunque controcorrente e le sue scelte (soprattutto artistiche, quelle personali sono appunto personali) gli hanno portato l’odio anche delle classi più conservatrici. Era un uomo senza compromessi. Ha pagato con un omicidio inventato di sana pianta.
Ci sono molti festival e molte kermesse dedicate al cinema. L’Italia sembra attraversare un momento positivo. Come vede questo rinnovato interesse? È un segnale positivo o è solo un modo per raschiare il fondo del barile e fare il verso ai soliti festival Hollywoodiani ed Europei?
Ci sono troppi festival e troppe rassegne. La gioventù si occupa solo di cinema e tutti si svegliano registi o produttori. Ci sarebbero moltissimi altri aspetti della vita culturale del nostro paese da promuovere, ma in questo senso nessuno muove un dito. Sono tutti troppo accecati dal proprio ottimismo.