Appunti di viaggio. Sì, solo questo mi resta, qualche appunto sconnesso strappato alla stanchezza. Compro un’altra guida, l’ennesima per cercare sulla carta i miei ricordi, le emozioni al di là dei ritmi da turista “sosta e fuggi”, al di là dei duemilaseicento chilometri macinati in quattordici giorni… al di là del gruppo. Sì, perché se non hai il coraggio di andare da solo e magari chiedere a qualche genio della lampada di tenerti compagnia nei momenti di sconforto, non ti resta, anche quando vorresti far altro, che entrare nelle dinamiche di gruppo, iniziare il viaggio nel viaggio tra le etnie di questo strano popolo italiano se è vero, e forse sì e forse no, che il romano è spaccone e caciarone, il settentrionale assertivo comunque e razzista, dolcemente e soffusamente razzista, il meridionale fessacchiotto e coi complessi d’inferiorità e gli italiani (brava gente) tutte queste cose insieme: una miscela esplosiva all’estero quando diventa fichissimo andare nel deserto coi fuoristrada, farsi di canne e birra per lasciare le bottiglie sotto la sabbia prima che il vento, quello che abbraccia e modella le dune, le scopra a discapito dell’ennesimo visitatore del pacchetto turistico, quello che in quel tratto di deserto si sente preso per il culo durante la cammellata.
Anch’io tra le dune di Merzouga sono un uomo che cerca l’orgasmo dentro una donna bellissima col preservativo usato da chissà quanti altri tra plastica e rifiuti e la tipa sul dromedario davanti che urla a telefono “A pà sto nel deserto!”; e i beduini stracchi come i loro dromedari adusi allo steso tratto e a provarci con le turiste – vieni ti porto a vedere le stelle – anche quando stelle non ci sono. Turismo etico, viaggio solidale o solitario, qualsiasi cosa pur di non sentire quel “Ma sò poveracci!”. Anche quando gli indigeni fan di tutto per noi con la gentilezza di un sorriso che non conosce barriere senza chiedere nulla in cambio; e stan preparando un matrimonio, nel villaggio fervono i preparativi, ma i dolci sono per noi. E la polizia ci batte sulla spalla,non ci fa la multa e ci raccomanda prudenza nella guida, quella che non conosciamo nelle nostre strade. “Anche voi laggiù in Sicilia… come il Marocco”. “Tale e quale!” Ma non riesco ad arrabbiarmi perché mi piacerebbe davvero si sentisse ancora da noi la grandezza delle menti e della cultura araba, mi piacerebbe che le nostre città fossero fitte di umanità come le medine di Fès e Meknès, che parlassimo le lingue come loro, che le donne cicalassero al mercato tra viuzze strette e bottegucce della misura di un fazzoletto, che un vecchietto sdentato dentro una bacheca da presepe lavasse i suoi polletti; e se non ti muovi con cautela butti a terra le uova, sotto di te la gabbia con le gallinelle e… guarda! Scusi! C’è il banchetto del macellaio, attenzione! Passa l’asinello carico di mercanzie, ma alla fontana puoi riposarti. Già, la fontana e i cinque punti fermi di ogni quartiere, più di trecento nella medina di Fès: moschea, fontana, forno, medressa (scuola coranica), hammam (bagno). Donne con le loro teglie di pane in testa dirette al forno, il ciabattino al lavoro, lo scrivano pubblico con la sua macchina da scrivere, il sarto, il falegname impegnato a costruire grate dal nome così vicino al nostro siciliano ammucciarisi (nascondersi).
Magari fosse così! Questa dimensione così tanto umana, da presepe vivente e forse nei suk di Vucciria e Ballarò, ma un mulinello di gente con la bocca aperta e lo sguardo perso sogna a Fès odalische e sultani perchè un cantastorie in mezzo si dà da fare; per un dirham il ficodindia più dolce del mondo accompagna la vista di giocolieri e mangiatori di fuoco e cavadenti e mercanti al digradare del sole sotto le mura dal colore della terra, mentre il muezzin lancia l’invito alla preghiera. Sulla medressa di Meknès la vista delle terrazze si anima delle risate invisibili di donne dietro ai veli e i vasi di fiori e… sarò blasfema o semplicemente una turista stronza come altri alla scoperta dell’esotico, ma a me questa rigida divisione dei due mondi maschile e femminile sembra così sensuale! Ho voglia di leggere la terrazza proibita di Fatima Mernissi e non mi stanco di guardare le donne velate, da sole e in gruppo a conversare tra loro e non mi stanco di guardare la cura con cui mettono in mostra i piedi decorati all’hennè, non mi stanco di guardare i veli neri e quelli coloratissimi e coi cappucci e coi pendenti e ricamati nei villaggi e bianchi nella valle del Todra e neri coi contorni rossi e le mani guantate e gli occhi intriganti truccati di nero e non mi stanco di guardarle coi bambini sulla schiena e nude dentro l’hammam, disinvolte dentro al proprio corpo nudo come noi, armate di femminismo e ombelico esposto, non sappiamo; ce n’è una di adipe felice che non si stanca di tergersi d’acqua, lei e la figlioletta piangente, e per qualunque motivo lo faccia, anche per purificarsi dopo aver fatto l’amore, è splendida… E la questione della donna… ”Ma perché, tu ci vivresti?”, “ Ed io che caz… ne so, come faccio a dirlo dopo dieci giorni… e poi è un cammino loro, non diceva la guida:non guardateci coi vostri occhi? io so che in quelle casbe lì, in quelle medine, non c’è solitudine”.
E ci avrei lasciato l’anima o forse l’avrei ritrovata in quel tratto tra Ouarzazate e Zagora, e magari più giù fino al deserto. La luce è splendida mentre ci inoltriamo tra montagne da fantascienza poi per la pianura e le oasi enormi di palmeti. La varietà paesaggistica del Marocco è straordinaria in una congiuntura climatica bellissima: il paese freddo col sole più caldo. I castelli berberi di quel tratto, costruiti con la terra rossa, la paglia e il pietrame sembrano quelli che un bimbo più bravo di altri ha fabbricato sulla sabbia. Avrei voluto che la mia macchinetta fotografica catturasse, come Aladino dentro la lampada, lo spirito di quei luoghi e mi sarei fermata dentro quelle case, quei castelli per confondermi tra la gente, lasciarmi attraversare da quel sole e quella terra, accarezzare gli asini e parlare coi bambini, semplicemente sarei rimasta lì un po’ di più, ma i turisti cercano le loro oasi, i loro alberghi, i ristoranti finto stile Marocco con piscina e cameriere a servizio e i musicisti con l’abito tradizionale e l’espressione angosciata di scimmie ammaestrate a tenere lo spettacolino. Lo pretendono. Ma a Moulay Ismail qualcuno mi riconosce: se non fosse vero sarebbe ridicolo raccontarlo eppure un dito verso di me e uno sguardo sorridente: le due sorelle marocchine che abitano poco lontano casa mia. Una probabilità su mille si è verificata e il gioco delle parti tra me e i compagni di viaggio è completa perché quelle insistono che andiamo a casa loro per la festa di circoncisione del bimbo che tengono in braccio: “Venite tutti, a noi il pane non manca!”. L’insistenza quasi ci mette in imbarazzo, ma non si può, il gruppo vacanze va avanti, magari per sentire meglio l’atmosfera dei luoghi stasera ci si farà una canna, no? Vabbè il gioco delle parti, ma perché cercare paradisi artificiali se dentro questi tamburi e questi ritmi continuano a volteggiarmi dentro l’anima gli occhi intensi del bambino delle gole del Todra! Stava con le sue capre lassù lontano, eppure corre corre, ad un tratto comincia a correre veloce come una lepre e a gridare -dirham dirham!-, le gambotte velocissime dentro i pantaloni bucati, un soldo di cacio col solo scopo fortissimo d’incontrare i turisti fermi con le macchine sul ciglio della strada. Ha gli occhi più neri e grandi che l’ansia che gli vibra dentro gli ha potuto disegnare sul volto. Avuto il suo dirham sorride appagato e felice, piccolo grande pastore, muscoli minuti e vibranti raccontano altre storie che quelle dei bimbi di città, i bimbi delle nostre città. Spero che ricordi come questo mi giungano ancora, come sassi leggeri a pelo d’acqua, che riguardando il percorso e le foto e gli appunti possa convincermi davvero di esserci stata, già per ritornarci con calma e col percorso eletto son pronta, una bussola in tasca per infilarmi nella medina di Meknès o di Fès senza timore di perdermi anzi con la voglia di scomparire sotto un burka e far la vita delle donne del luogo con la facoltà di uscirmene quando mi pare, – unico privilegio da viaggiatore -. Andrei alla festa di quel matrimonio a Zagora, mi mescolerei alle donne che ricamano i tappeti ascoltando le loro storie, quelle dipinte sulla ceramica, quelle sussurrate sotto il velo e tra i fumi dell’hammam o passeggiando nella necropoli di Chellah a Rabat come in un purgatorio coranico o in un paradiso di Allah coi cigni sullo sfondo e la luce gialla sulle rovine al tramonto a dimostrazione di quanto l’atmosfera dei luoghi conti più dei luoghi stessi. Andrei dietro un venditore di acqua o un tuareg con la mappa del deserto in testa, butterei per sempre la macchina fotografica, tanto a loro non piace, credono che gli si porti via l’anima, che le donne dopo una foto non possano più sposarsi, ed io mi sono già sentita deficiente a sufficienza nel riprendere gli operai al lavoro e i poveri cristi nelle concerie riparandomi il naso con la mentuccia. Mi farei prendere per mano da questa gente, – ma che davvero hai bevuto l’infuso alla verbena che ti ha dato quel tizio? E non ti ha fatto pagare? Ma davvero? – Andrei con loro, tanto quella dell’arabo con la bomba sotto la jellaba è una storiella indotta e se anche fosse, in gruppo, in un autobus per turisti starei più in pericolo e poi non mi va di credere, non ci riesco, che la nostra è la civiltà superiore, che la nostra religione è il meglio del meglio, che è nel nostro diritto distruggere gli arabi sol perché sono orgogliosi. Starei con loro a dimenticare la mia lingua, farei finta di non aver mai conosciuto l’energumeno romano del mio gruppo, quello che si era fatto la Namibia prima di venire, quello che andrà in Brasile dopo e poi magari si farà il Laos a dicembre perché tutto ciò è fichissimo come il vantarsi di aver sbattuto in faccia i soldi al tassista che ha perso un’ora con noi oltre il tempo e il denaro pattuito . Per me sarà bello già selezionare e ripescare i ricordi. Arriva ad Essaouira sul freddo mare dell’Atlantico la notizia dell’attentato a Meknès. Siam pronti per rivedere il mondo da un oblò. Ma io qui ci ritorno, inshallah