San Felice di Narco.
L’acqua scorre, verde, limpida:
“Molto fredda” dice la ragazza ferma sulla sponda. E ci sorride, quasi invitandoci a camminarvi dentro come ha appena fatto lei: la gonna appuntata alla cintura, le gambe completamente immerse. Gambe che adesso, lentamente, sta asciugando con la mano. E sono belle, lisce, abbronzate, magre e come scolpite nella carne soda.
“Questo è uno dei punti più suggestivi del Nera” mormora.
E ha ragione. Se dimentichiamo di avere alle spalle la strada, le case, i rombi delle motociclette e fissiamo lo scorcio che comprende il ponte e l’ansa del fiume, è come se tornassimo indietro di secoli, quando l’uomo non s’era appropriato della bellezza e non ne aveva fatto scempio.
“E’ profondo?” le chiediamo.
“Qui no, laggiù, invece, abbastanza”.
Ha occhi grandi, luminosissimi, del colore del miele, una sorta d’ambrato che acquista sfumature diverse a seconda dell’intensità della luce: oro liquido adesso che ci sta guardando. E non possiamo non avvertire un brivido. Perché c’è qualcosa, in questi occhi, che ci sorprende, che non incontravamo da molto tempo, qualcosa che assomiglia a una pacata, immensa felicità.
Per un istante pensiamo a Ciane e a tutte le ninfe che hanno abitato i fiumi nelle fantasie degli uomini. Pensiamo ai corpi delle fanciulle che si sono sciolti in acqua, alle acque che hanno scelto le loro guardiane, alle fonti che hanno preteso la tutela di sacerdotesse. Fantastichiamo sulla trasparenza e la purezza di quando ancora non c’erano gli scarichi a fare dei fiumi fogne a cielo aperto.
La ragazza sembra divertita, quasi indovinasse i nostri pensieri. Ma no, non può essere una ninfa. E’ ben concreta la sua carne, la fossetta che le si disegna sulla guancia non appena sorride, la forma della sua bocca ravvivata da un rossetto color ciliegia, e la farfalla che ha tatuata sul fianco, ben visibile nello spazio compreso tra il bordo della maglietta e la cintura della gonna.
Torna a parlare dell’acqua:
“E’ fredda, sì, e profonda. Bisogna stare attenti”.
“A che cosa?”.
“Alla corrente. In questo punto è molto forte, se il fiume ti prende…” lascia la frase in sospeso.
Se il fiume ti prende…? Che succede? Ti porta con sé? Ti uccide? Ti restituisce a una vita diversa?
Ripensiamo a Lucia. L’ultima volta che l’incontrammo aveva gli occhi pesti. Però sorrideva:
“Sto bene” disse. Era marzo, tirava vento. Il suo ragazzo era morto due mesi prima in un incidente stradale. Lei, all’inizio, aveva pianto molto, poi si era quietata. Solo gli occhi le erano rimasti torbidi. Un giorno ci dissero che si era annegata nel fiume.
Ma quest’acqua no, non può ammazzare.

“Qui c’era un drago, una volta” sta dicendo intanto la ragazza.
“E San Giorgio l’ha ucciso”.
Ride:
“No. L’ha ucciso Felice, un siriano venuto qui insieme a suo padre”.
Sì, di lui sappiamo qualcosa: che fondò una comunità, che bonificò la zona. L’abbazia alle nostre spalle porta il suo nome. L’abbiamo appena visitata. Ma eravamo troppo stanchi, stravolti dal caldo soffocante di questi giorni per riuscire ad apprezzarne il pregio artistico o, semplicemente, il valore storico. Però, adesso che lei ne accenna, ricordiamo la figura scolpita alla base del rosone che decora la facciata, appunto quella d’un uomo che trafigge un drago.
Immaginiamo una bestia enorme, verde, squamosa: viene fuori dall’acqua e si erge in tutta la sua altezza; spalanca la bocca, sfiata un lungo, rosso, incandescente getto di fuoco. E il fuoco incenerisce gli alberi, le erbe, le sponde del fiume, arroventa l’acqua, uccide i pesci, carbonizza ogni centimetro di terra.
“Dunque questa era una landa desolata”.
“Non proprio. Qui c’è stato sempre molto verde, il Nera ha sempre abbondato d’acqua. Tanto che spesso straripava, allagava le terre e le riduceva in paludi”.
“E questo cosa c’entra col drago?”.
Ci guarda, i suoi occhi hanno adesso il colore del bronzo:
“Il drago è la morte” mormora. E la parola “morte” nella sua bocca, sembra così strana, così fuori luogo.
“Morte per fuoco” precisiamo.
“No. Dalla bocca del drago non usciva il fuoco ma un fiato velenoso, che ammorbava l’aria e uccideva chiunque la respirasse”.
“La malaria, forse?”.
“Appunto, la malaria. Felice ebbe l’intuizione di bonificare la terra. E dunque uccise il drago”.
Ma è davvero così? Solo così? Restiamo delusi, forse perché l’uccisione di un drago riporta alla nostra mente fantasie di cavalieri, d’astuzie: l’intelligenza contro la forza, la sapienza contro la magia del fuoco che divampa da una bestia che viene da un altro mondo. E vorremmo che questa donna ci raccontasse una storia meravigliosa, che ci dicesse del ragazzo Felice che un giorno…
Ma lei s’è come distratta. Bagna le mani nell’acqua, se le passa sul viso, sul collo, e un brivido le increspa la pelle, vediamo la maglietta tendersi all’altezza del seno, la farfalla sul fianco muovere impercettibilmente le ali. Lei avanza di qualche passo, s’immerge nell’acqua fino ai ginocchi. Pensiamo che stia per andarsene, invece…
“Un giorno” comincia a raccontare “Felice, stanco di tanta morte, decise di affrontare il drago. Impugnò un’asta e s’avviò verso l’ansa del fiume in cui lo sapeva annidato. S’acquattò, aspettò con pazienza il sorgere del sole…”.
Fa una pausa, fissa lo sguardo sulla verde limpidezza della corrente, poi:
“Ecco, il drago si sveglia, si muove appena sotto il pelo dell’acqua. Felice trattiene il fiato: non è alto, non è forte, non è un guerriero, non ha un’armatura che possa difenderlo. Il drago lentamente comincia a mostrarsi: la lunga spina dorsale, la coda che s’assottiglia in una specie di aculeo. E adesso la testa, gli occhi che sembrano quelli di un alligatore, e le fauci, che per ora sono chiuse. Felice lo guarda, aspetta che s’avvicini alla sponda, che riveli un qualche punto debole. Che c’è, ed è qui: precisamente nella piega tra gola e mascella. Il drago, infatti, come un cucciolo che voglia giocare, s’è rivoltato sulla schiena offrendo la pancia ai primi raggi del sole. Felice con un guizzo lo raggiunge e affonda l’asta in quella piega di debolezza. Il drago non può che contorcersi, e spasimare, e gorgogliare sangue e sangue mentre dal fiume svapora come una nebbia e tutto si fa indistinto, lattiginoso, spaventosamente irreale. Felice si sente mancare, la sua testa gira, gira…”.
All’improvviso tace. In piedi in mezzo all’acqua sembra davvero una ninfa, padrona del fiume, lei stessa fiume, antica e immortale, col tempo che scorre indifferente sulla sua pelle giovanissima.
“E poi?” domandiamo in un soffio.
Ci guarda, ma è come se fosse già lontana, lontanissima:
“Poi ci fu la luce, il cielo limpido, la campagna fertile, il fiume ben contenuto nei suoi argini. Felice morì e fu chiuso in una tomba, lì, nella cripta. Ma era un santo e in quanto santo compì un primo prodigio: fece sgorgare una polla d’acqua sotto l’altare. Naturalmente miracolosa. Guariva dalle pustole, dalla scabbia, dalle febbri. Le madri venivano e immergevano i figli e così pensavano di renderli immuni dal male”.
Ha un sorriso triste, come se l’essere immuni dal male fosse prerogativa di un altro mondo.
Ma noi lo conosciamo bene l’ardore delle madri, quel loro credere in tutto, tentare di tutto perché il figlio sia preservato da ogni disgrazia. Sappiamo delle notti insonni, delle preghiere, i voti, le promesse, i digiuni affinché la malattia sia debellata e la creatura torni a vivere con la stessa esuberanza di prima. E dunque la fonte miracolosa, la reliquia, un frammento della veste d’un santo…
Ma lei s’è fatta impaziente. Guarda l’acqua come se ne fosse irresistibilmente attratta. Ci sorride un’ultima volta mentre i suoi occhi balenano di riflessi dorati, quindi ci volta le spalle e s’avvia verso il centro del fiume con una risolutezza che ci disorienta.
Si tuffa.
E sparisce.