Un breve scontro di civiltà

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Le donne col capo coperto e gli abiti lunghi. Le donne dal viso con una linea netta che taglia loro la fronte. Come suore, visi puliti, occhi bassi, sorrisi accennati...

Le donne col capo coperto e gli abiti lunghi. Le donne dal viso con una linea netta che taglia loro la fronte. Come suore, visi puliti, occhi bassi, sorrisi accennati, mai diretti, sorrisi di risposta solo a sorrisi femminili. Viene da diventare così per via dei troppi sguardi insistenti, inevitabili: occhi maschili che aggrediscono e mettono paura. Paura di che? È uno sguardo talmente vicino all’azione quello degli arabi. Uno sguardo che non osserva, agisce. E in quella mancanza di spazio e di distanza che è propria del pensiero, c’è la paura, manca il tempo, manca una qualche elaborazione e possibilità di protezione. Già dall’aeroporto, nel gruppo che si forma tra chi ha lo stesso volo, un gruppo che condivide l’attesa dell’aereo e poi una stessa destinazione, già da lì si entra in un altro mondo. Ora temuto più che mai. Si volerà, tutti noi che passiamo da un gate all’altro e non sappiamo quale sia quello giusto, verso l’Africa. Noi occidentali siamo in pochi. Ad un tratto ci si sente occidentali, non importa di quale paese. Spariscono gli italiani, i francesi, i tedeschi, persino gli americani e diventiamo tutti occidentali, uniti da una appartenenza che non si riesce a definire. Cosa condividiamo dopotutto? Gli sguardi. Il nostro modo di guardare, e di pensare, è diverso. Non importa cosa pensiamo, ma pensiamo. Gli arabi non lo conoscono, non l’hanno mai conosciuto il nostro pensiero, semplicemente lo negano. Ma nemmeno. Nella negazione c’è una qualche conoscenza e dunque avversione e dunque pensiero. No, è qualcosa di diverso. È un sentimento di superiorità e di diritto a guardare in quel modo. Per loro è naturale piantare uno sguardo violento addosso a una donna che cammina su e giù con le spalle scoperte. È lei che lo vuole, con quegli omeri e con quei capelli sciolti e liberi. Se fossi un uomo avrei la stessa impressione di disagio? Guardo i bambini: rumorosi, fastidiosi, strafottenti, sfrenati, irriverenti verso le madri che li accudiscono e gli permettono la libertà di sentirsi in diritto di fare tutto. C’è un’ammissione di superiorità della barbarie in questo. È questa la sensazione che ho addosso mentre mi accingo a prendere un volo che mi porterà prima a Casablanca e poi, da lì, cambiando volo, a Ouarzazate, un paese che è all’ingresso del deserto. Mi hanno fatto imbarcare il bagaglio, due chili di troppo e pericolo bombe. Odio la tizia del check in. Ho con me solo una macchina fotografica, il passaporto, il cellulare, un taccuino e una guida sul Marocco. Non so nulla del paese verso il quale sto andando. Ne leggerò qualcosa in aereo, nella guida. L’attesa si fa lunga. Due ore di ritardo in partenza. Non sopporto tutti quegli abiti lunghi e tutti quei capi coperti e soprattutto non sopporto gli sguardi di questi uomini brutti, segnati in volto, non sopporto infine, e più di tutto, non avere la libertà di guardarli dritto in faccia per poterli descrivere. In questa impossibilità di osservazione mi paiono tutti uguali.
C’è una libreria, un sospiro di sollievo. Osservo i libri, ne apro uno a caso e mi distendo in un pensiero di Baudelaire: “I veri viaggiatori sono coloro che partono per partire: i cuori leggeri; coloro che hanno desideri simili alle nubi, e che sognano delle vaste voluttà, cangianti e sconosciute, delle quali lo spirito umano non ha mai saputo il nome”. Rifletto. Non sono una viaggiatrice. Non sto partendo per partire ma per lavoro. Ma la parola voluttà mi riapre l’immagine di un uomo incontrato una volta sola e che mi ha incantata. È una mia immaginazione, l’incarnazione di un desiderio. Dopotutto esiste e l’ho incontrato, anche se non mi è dato di rivederlo. Gli mando la frase con un sms. Lo rivedrò in un altro giorno o in un’altra vita? Sono in fondo la stessa cosa.
Ritorno ad aspettare. Mi siedo e osservo. Lascio che tutta la diversità che ho attorno mi si stagli davanti come un dato di fatto. Sospendo ogni giudizio. Chiudo gli occhi e mi concentro sul suono di una lingua straniera, strana, gutturale, fatta di sputi. Ha un tono alto. Non permette silenzi. Come riusciremo a convivere? Cosa possiamo condividere? Finalmente inizia l’imbarco. Si parte. Nell’aereo della Royal Air Maroc l’aria condizionata è a un livello glaciale. L’aereo ha decorazioni arabe sulle tendine e sui sedili. La musica è insistente, circolare e pesante, come un monile a spirale lavorato fino al barocco. Mi allaccio le cinture di sicurezza. Accanto a me un tizio di mezza età con la camicia sbottonata, abbronzato e dai capelli bianchi, è disgustoso. Italiano, l’accento romano greve quanto le sue movenze. Ma non ha quello sguardo minaccioso, non ha nessuno sguardo.
Dietro di me due uomini parlano una lingua in bilico tra lo spagnolo e l’italiano. Sembrano simpatici. Chiacchiero e mi raccontano che Ouarzazate è bellissima, ne vale un viaggio. Peccato che ci vada per lavoro e per soli due giorni, sottolineano qualcosa che so già. Si parte, il rombo è assordante, schiacciati dalla velocità contro gli schienali, ci solleviamo alla volta di un altro continente.
Durante il volo il tempo si ritira, e non è una metafora. Due ore indietro. Poter spostare le lancette è un atto significativo. Anche gli odori si spostano. Passano i carrellini con la cena. Quando gli odori cambiano, cambia tutto. Spezie invadono l’aria. Talmente forti da risultare inevitabili. I pasti in aereo sono immangiabili, questo non fa eccezione. Ma c’è un dolce che è buono, buonissimo: morbido e aromatico, sensuale. Fa sorridere. Quando atterriamo l’atmosfera è più tranquilla, come se il volo avesse placato tutti, anche per via della stanchezza. Ci si alza lentamente. Controllo l’ora: l’aereo che da Casablanca, dove ormai sono, deve portarmi a Ouarzazate doveva partire tre ore fa.
Chiedo ai due italo-spagnoli simpatici se sanno di un volo successivo. No, mi rispondono. Ma forse l’aereo ha aspettato. Insciallah, aggiungono. Se dio vuole. È una parola che, imparerò, gli arabi mettono alla fine di ogni frase. Se dio vuole. Anche mia nonna fa la stessa cosa.
Di Casablanca non vedo che l’aeroporto, correndo alla ricerca del mio volo. Parlo francese, mi faccio capire ma le risposte sono lente e vaghe. Insciallah è una parola che toglie precisione, lascia tutto al caso, troppo. Finalmente capisco dove devo andare, sono ancora in tempo. Incontro una francese che aspetta di partire dal giorno prima. Mi sento fortunata, io aspetterò solo un’ora.

 

Lo sguardo ha una capacità sorprendente di adattarsi: qui di colpo è normale stare in mezzo agli arabi. Sono io che, qui, sono diversa. Sono a casa loro. L’altro aereo è più grande del precedente e più vuoto. Siamo in pochi. La musica araba continua a ipnotizzare, sembra sempre la stessa. In poco tempo si decolla e si atterra. Guardo dal finestrino: poche luci, dune nere, corsi d’acqua d’argento e case basse d’argilla che danno il senso di precarietà dell’esistenza e di semplicità povera.
Dall’alto il deserto placa ogni paura, amplificandola fino ad annullarla. Dopo un brusco atterraggio, scendo. L’aria è caldissima. Mi guardo intorno e invece di guardare, sento: il suono degli uccelli tra le palme è forte e accogliente, come di festa. Vado ad aspettare il mio bagaglio, che non arriva e non arriverà. Passerò due giorni senza le mie cose, i miei abiti occidentali e il mio cappello. Imparerò ad arrangiarmi con abiti locali, a coprirmi per ripararmi dal sole, a farmi il turbante con una sciarpa, a prenderla con filosofia, a tenere liberi solo gli occhi. Imparerò, nel poco tempo che avrò a disposizione, a riconoscere una cultura, quella berbera, che mi pare una speranza. Berbero vuol dire uomo libero. Ne imparerò i suoni, la grande ospitalità e dolcezza e imparerò che nel deserto non si è mai soli. Un giorno andrò a fare i miei bisogni dietro una duna e sentirò l’attrazione per uno spazio sconfinato, mi verrà voglia di continuare a camminare a oltranza, una voglia sconosciuta, ma tornerò indietro verso i miei doveri. E berrò il tè preparato con lentezza. Imparerò a contrattare con allegria, imparerò che anche qui gli internet point sono più frequenti dei supermercati. E soprattutto, al ritorno a Roma, imparerò che tutte le bestemmie, mandate alla disorganizzazione della linea aerea marocchina che non mi ha fatto arrivare il bagaglio a destinazione, erano malposte: il mio bagaglio non era mai partito da Roma per via di un guasto al nastro trasportatore. L’ho recuperato, il bagaglio, dopo tre ore di discussione, vestita da araba, con l’ufficio Lost & Found italiano. Solo dopo essere arrivata a minacce, quasi a sputi, l’ho recuperato e l’ho riportato a casa. Un bagaglio inutile, che è servito a rendermi conto di poterne benissimo fare a meno. Perché la mancanza, quella vera, appartiene solo ai luoghi e alle persone.

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