Lucía Puenzo e XXY

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È una mattina di giugno caldissima, con un’aria che mozza il respiro e rallenta i gesti e vela gli sguardi dei giornalisti che ondeggiano fuori e dentro il cinema Eden...

È una mattina di giugno caldissima, con un’aria che mozza il respiro e rallenta i gesti e vela gli sguardi dei giornalisti che ondeggiano fuori e dentro il cinema Eden, dopo la proiezione di XXY: storia di un’adolescente ermafrodita, opera prima argentina e Gran Premio della Critica al Festival di Cannes 2007. Intersessualità, ermafroditismo, assorti tutti a rimuginare la misteriosa questione, solo pochi si accorgono della figura azzurra, freccia scoccata da un invisibile arco, che attraversa velocissima la hall del cinema.
Lucia Puenzo, la regista del film, poco più che trentenne, capelli biondo castano, una tunica azzurra che lascia scoperte le spalle, sandali senza tacco, si affaccia festosa all’ingresso, come chi esca sulla porta di casa ad accogliere gli amici in arrivo.
Una luce le accende lo sguardo, un’eccitazione gioiosa, forse lo stordimento di chi, abituato alla solitudine e alla reclusione della scrittura (Lucia Puenzo, abbiamo letto, può scrivere dieci ore al giorno sette giorni la settimana, ha già pubblicato tre romanzi, scritto sceneggiature, diretto film per la televisione) si offre all’aria, al fulgore del giorno. E alle piccole interviste individuali prima dell’inizio della Conferenza Stampa.
Per appartarsi dal rumore del traffico e dalla luce abbagliante, le chiedono di appoggiarsi al muro laterale dell’Eden e lei acconsente collaborativa, pronta ad ascoltare le domande, a tuffarsi nelle risposte e forse qualche passante deve credere che la bellissima fanciulla, addossata alla parete con il microfono in mano, sia la modella per una pozione di eterna vita, per un elisir d’amore. Il passante non può sentirlo il flusso di parole, il magma denso che prorompe dalle sue labbra mentre parla del racconto di Sergio Bizzio, da cui è venuta l’ispirazione iniziale, dei tanti incontri con medici e genetisti, e con genitori e adolescenti ermafroditi, alcuni operati, altri no. In una sequenza vorticosa, vitalissima di parole Lucia parla di modalità e cause dell’ermafroditismo: da quelle ormonali alle anomalie cromosomiche al chimerismo, in cui in uno stesso individuo si trovano cellule con patrimoni genetici differenti: cellule con cromosomi XX e cellule con cromosomi XY. Spiega che in molti casi sin da piccoli, gli intersessuali, vengono sottoposti ad operazioni chirurgiche e a cure ormonali per “normalizzarli”: affinché diventino o uomo o donna. Senza dare loro né tempo, né scelta.
Lucia parla con foga, come se le vite incontrate per documentarsi le ribollissero ancora dentro. Spiega che XXY è un film sulla ricerca dell’identità e sulla scoperta del desiderio, temi che riguardano ogni adolescente e, in genere, ogni persona.
Le chiedono se essere figlia di Luis Puenzo, regista e sceneggiatore argentino, vincitore nel 1985 dell’ Oscar per il miglior film straniero con La Storia Ufficiale, l’abbia facilitata o non sia stata invece un ostacolo, una possibile intrusione. E lei risponde con slancio, con leggerezza, se mai lo ha sentito l’ingombro paterno deve averlo trasformato presto in combustibile, in sponda sicura: “Non solo mio padre, tutti i miei fratelli sono nel cinema, due hanno lavorato per questo film, mio padre lo ha prodotto. Ci sono quando servono. E sanno quando tirarsi indietro”

Entriamo nella penombra della sala per la Conferenza Stampa, la tunica azzurra di Lucia risplende davanti al pubblico che la studia attento, intimidito da questa ragazza solare e volitiva. Dall’originalità e la sensibilità di cui ha pervaso il film. Per iniziare vorrebbero sapere qual è stata la reazione in altri paesi ad un tema così difficile.
In realtà il film è stato visto solo a Cannes, e da poco in Argentina, e l’incertezza all’inizio era tanta, ma subito ci sono state buone critiche e l’accoglienza del pubblico è stata calorosissima, dice Lucia emozionata, diecimila spettatori in quattro giorni, forse perché il tema dell’identità in Argentina è un tema potente. E, nel film, si unisce ad altri temi molto sentiti: la scoperta del desiderio nell’adolescenza, del sentimento amoroso che unisce Alex, la ragazza ermafrodita, e Alvaro il figlio del chirurgo ospite in casa di Alex, e il rapporto genitori figli.
Lucia spiega che l’adolescenza è un tema centrale in tutti i suoi romanzi, è l’adolescenza il momento della vita da cui irradia tutto il resto e nessun adolescente, a suo giudizio, può essere raccontato prescindendo dal contesto familiare, dal bozzolo che lo nutre, o da un suo possibile surrogato. Nel film appaiono due contesti familiari diametralmente opposti.
Il pubblico, ancora incerto, le chiede dettagli tecnici sull’uso della macchina a spalla, sul taglio documentaristico e insieme fiabesco del racconto. E Lucia dice che è vero, voleva che il film unisse il registro del documentario alla vitalità della macchina a spalla che segue i personaggi e gli sta addosso, ma senza violenza, con un movimento fluido. Hanno usato quello che, in Argentina chiamano el pulpo, il polipo, una specie di steadycam fatta in casa.
L’atmosfera in sala si allenta, tutto sembra procedere al meglio: ma ecco che da un gruppetto appartato si leva un brusio, un signore si alza in piedi: lui e i colleghi, spiega gentilmente, sono medici genetisti e pur avendo molto apprezzato il film, deplorano la scelta del titolo che risulta del tutto fuorviante: XXY sta ad indicare la sindrome di Klinefelter, ma l’adolescente del film non ha nessuno dei tratti di questa sindrome. Loro, spiega il medico, si adoperano da tempo presso la loro associazione per fare chiarezza sugli aspetti di questa sindrome e sono sinceramente preoccupati per i messaggi errati che il film può mandare.
Lucia annuisce: spiega che l’intenzione del film non era quella di rappresentare un unico caso clinico. Non la interessava documentare una diagnosi precisa, quanto piuttosto lavorare sulla poetica dell’intersessualità. Mentre scriveva la sceneggiatura, per definire Alex ed il suo corpo, ha avuto, per molto tempo, incontri periodici con genetisti ed adolescenti ermafroditi, facendo sempre attenzione, però, a che l’aspetto medico non diventasse preponderante.
Sul suo sito, continua, viene data spiegazione di ogni singola diagnosi, ma il film è solo un’opera di finzione, l’indagine su un corpo che, in una società binaria, si colloca in uno spazio altro, che non è quello maschile, né quello femminile, e deve lottare per trovare una sua collocazione. Il titolo riflette visivamente questa condizione: è un simbolo immediato che rimanda alla diversità, alla combinazione diversa di cromosomi sessuali maschili e femminili. La y in realtà è una x mozzata, privata del segmento destro inferiore.
Lucia ricorda i tanti termini di uso comune che sono stati usati, nel cinema e nella letteratura, proprio per la loro valenza metaforica. E fa l’esempio del romanzo La peste di Camus, dove la peste è metafora per parlare d’altro. E forse non è un caso se ora, nell’urgenza, Lucia sceglie il titolo di un romanzo che suo padre ha adattato per il cinema. “E comunque noi lo spieghiamo sul web, diamo tutte le informazioni che servono” conclude.
Il medico ringrazia e gentilmente insiste: a giudizio suo, e dei colleghi, il titolo costituisce una grossa distorsione della realtà clinica della Sindrome di Klinefelter (KS) pericolosa sul piano psicologico soprattutto per gli adolescenti e le mamme in gravidanza con diagnosi prenatale di feto XXY. Lucia dice che ovunque, in Francia, in Argentina, alle prime nazionali, persone con esperienze simili a quelle ritratte nel film, all’uscita sono andate a parlare con lei, a dirle come avessero ritrovato il loro intero dilemma. E questa le sembra sempre l’argomentazione migliore.
Lucia ascolta con attenzione le critiche e risponde con prontezza, senza adombrarsi quando le sue ragioni non vengono accettate. Il bozzolo familiare in cui è cresciuta deve averla nutrita di fiducia. Sono i giornalisti a sentirsi a disagio per lei, a soccorrerla con domande che devino il discorso. E così si va avanti, la conferenza riprende, le ragioni dell’arte e della scienza rimangono momentaneamente su rive opposte.
I giornalisti vogliono sapere qualcosa di più sulla località straordinaria, sulla dimora remota e isolata davanti all’oceano. Il luogo si chiama Piriàpolis, e dista un’ora da Montevideo, spiega Lucia a cui ogni tanto è capitato di trascorrervi le vacanze. È nato come grande stabilimento balneare per una città che non è mai arrivata ad essere. Un luogo immenso in cui è facilissimo perdersi, ed è plausibile che i genitori di Alex decidano di andare a vivere proprio lì, dove la loro figlia è stata concepita, per sottrarla agli sguardi curiosi della gente di Buenos Aires. Lo spazio chiuso della casa contrasta con l’infinito che la circonda, la chiusura con la vastità; e comunque, anche in un luogo così segreto e appartato, la verità riesce a farsi strada.
Le chiedono notizie dei bravissimi attori che incarnano i due adolescenti. Il ragazzo, Lucia, lo conosceva già da anni, per il suo lavoro a teatro, e il personaggio di Alvaro lo ha scritto con il suo viso in mente. Quanto alla ragazza il casting è stato molto lungo, senza l’attrice giusta il film non sarebbe andato da nessuna parte, e alla fine l’ha trovata in un film argentino Glue dove faceva un ruolo secondario. Nel film i protagonisti hanno quindici anni, nella vita reale una decina in più.

Quando le chiedono le ragioni di tanta libertà in Argentina, della facilità nel trattare temi che qui in Italia rimangono tabù anche sul piano artistico, Lucia Puenzo ci pensa su un istante poi risponde che, a ben guardare, storicamente è sempre stato così: ogni volta che l’Europa è andata a sinistra, l’America Latina è andata a destra e viceversa. Questo è un momento di grande vitalità in Argentina, in un paese, in un continente che è stato funestato dalle dittature, ora si ha voglia di parlare di tutto, di interrogarsi sulle ragioni della propria identità.
Quanto alle differenze con il racconto a cui è ispirato il film, che sono molte dice Lucia, riguardano soprattutto il ruolo degli adulti e il tono che, nel racconto, vira sulla commedia. Comunque l’autore è presente in sala e potrà confermarlo e ci accorgiamo di un uomo seduto in un angolo, dello sguardo acceso con cui segue la discussione. Quanto ai suoi nuovi progetti sta adattando per il cinema il suo primo romanzo El nino pez (Il bambino pesce) e sta lavorando per un film che sarà prodotto da Stephen King. E di cosa parla El nino pez? E Lucia, azzurra e luminosa nella sala oscura, dice che è la storia d’amore tra una ragazza di Buenos Aires e la sua domestica, narrata da un cane.
Bene, bene. Annuiscono tutti, con stupore e impaccio. E così si conclude la Conferenza stampa senza che si sia dissipata del tutto l’esitazione iniziale. Ed è solo dopo nelle interviste individuali, nel corpo buio della sala, che la materia densa riprende a fluire.
Un giornalista esprime la propria ammirazione per la scena del colloquio tra il chirurgo plastico e suo figlio Alvaro: che condensa in poche battute disprezzo paterno e disperazione filiale. Lo sguardo di Lucia si fa serissimo: nel film il padre della ragazza ermafrodita si prende cura di lei, e le promette di farlo fino a quando lei non sarà in grado di scegliere da sola, e l’altro padre, una figura carismatica, nell’intimità si rivela bestiale nei confronti del figlio, non crede al suo talento, non si fida di lui. E per un istante, lo sguardo del figlio che ascolta le parole crudeli del padre, ci torna negli occhi intenso e doloroso. Lucia dice “quando cresci senza fiducia, senza un padre che crede in te è difficile dopo riuscire in qualcosa”.
Un giornalista della radio si sofferma sulla scena dell’incontro in cucina tra Alex e il chirurgo in visita per osservarla, segretamente, e valutare la possibilità di operarla, di castrarla: privarla dell’organo maschile considerato un di più. Tra i due ci sono solo sguardi, quasi nessuna parola, sembra una scena di seduzione, dice il giornalista, una seduzione impalpabile, sfuggente che lo ha molto colpito. Il viso di Lucia risplende: spiega che è stata la prima scena che ha girato con Inés Efron (l’attrice che interpreta Alex), avevano fatto delle prove per lavorare sul personaggio, ma quella era la prima vera scena che giravano. All’inizio Inés Efron, per sedurre, ricorreva alla sua parte femminile, e hanno dovuto lavorare per potenziare l’aspetto androgino. Per arrivare ad esprimere una corrente di sensualità tra due persone che non fosse né maschile né femminile.
Lucia, ora che la conversazione è ormai avviata, spiega che gli intersessuali, che hanno visto il film, si sono commossi nel vedere che il corpo di Alex non appariva alla stregua di corpo mostruoso ma era anzi desiderabile e oggetto di attenzione amorosa. In fin dei conti un tempo, nell’antichità classica, l’ermafrodito non era un essere da normalizzare, ma una creatura speciale più ricca e completa degli altri.

Torniamo nella luce abbacinante del giorno, nella hall deserta sono rimasti solo Vieri Razzini, alto, elegante che distribuisce il film in Italia e Sergio Bizzio, l’autore del racconto “Cinismo” da cui è tratto il film, l’uomo seduto in un angolo della sala. Lucia ce lo presenta e ci dice che è il suo compagno nella vita. Lo dice in un sussurro svagato, e ora camminiamo nel sole commentando. Lucia è felice, Sergio Bizzio è felice. A Cannes, dice Lucia, gli interpreti non ce la facevano a starle dietro. E lo riconosce, lei parla veloce, a noi non era mai successo di sentire qualcuno parlare così veloce. Domani vanno al Taormina Filmfest e poi in Germania. Ma oggi sono a Roma e ne catturano ogni angolo, ogni briciola. Lucia ci chiede una lista di autori contemporanei italiani, ci spiega che le piace leggere letteratura contemporanea di ogni paese, divora tutto, la letteratura è la sua vera passione e ci assicura che la sua scrittura è molto più realista di quanto il suo film possa far credere. Ci racconta di una miniserie scritta per la televisione Gli invisibili storie di ragazzini poveri che rubano negli appartamenti e di un ragazzino che torna nella stanza di un coetaneo ricco, non per rubare, ma per giocare quando lui non c’è. È una storia che le hanno raccontato, due bambini, per strada. Lo sguardo intenso di Lucia scivola sulle vetrine, sui pochi passanti, sulle macchine. Chiede a Sergio di farci una foto mentre camminiamo per strada . “Mentre camminiamo…” si raccomanda. E Sergio scatta, Lucia si leva gli occhiali, se li mette di nuovo mentre avanziamo nel sole senza fiato, sospesi in una bolla di calore. Peccato per questa calura, peccato che le vie di Roma siano così deserte, e siano in pochi ad essere contagiati dal magma di gioia, di pienezza che si riversa nella strada. Il bar dove entriamo, invece, è pieno di gente. E Lucia guarda e osserva e sorride. E Sergio Bizzio si infervora, da vero argentino, certe domande a lui gli sembrano sempre fuori luogo “…come quando ti chiedono: lei cosa voleva dire?… qual è il senso della sua opera? mio caro il senso trovalo tu…” Lucia allunga la forchetta nel suo piatto e ride, lo guarda con infinita tenerezza, quest’uomo più grande di lei che si adira e si adombra. Lucia mangia dal suo piatto e ride.

È quasi sera ormai e rimane un’ultima intervista radiofonica alla sede di Via Asiago. L’aria è ancora infuocata e la tunica azzurra di Lucia è stata sostituita da una tunica nera. I suoi piedi nudi nei sandali bassi salgono in fretta la scale e mentre ci attardiamo a fare i permessi di entrata Lucia contempla ammirata le vecchie foto dell’ingresso: le prime grandi voci femminili, un gruppo di rumoristi. Le contempla immobile, gli occhi colmi di una strana nostalgia, come se quel tempo remoto, molti anni prima della sua nascita, facesse parte del bagaglio genetico della sua famiglia. Lucia Puenzo e Sergio Bizzio percorrono i corridoi pieni di stupore. Non riescono a credere che la Rai sia così grande, accarezzano le pareti talvolta scrostate, i pannelli degli ascensori che talvolta si staccano e mormorano “Come è grande , come è bella” e quando diciamo che quella è solo una delle tante sedi loro tacciono e sgranano gli occhi. In trasmissione a Sergio Bizzio viene chiesta ragione della location del film e lui che non si aspettava domande risponde emozionato, dando a Lucia ogni merito. Lucia ascolta con attenzione i piccoli estratti doppiati in italiano e si dice entusiasta dell’effetto delle voci. E spiega che ora sono molti i genitori che si rifiutano di far operare i propri figli, di normalizzarli. “È importante difendere il proprio corpo, avere il coraggio di difenderlo, non c’è nulla di peggio che avere paura del proprio corpo.” Quando le dicono che il film non sembra affatto un’opera prima, lei racconta dei dodici anni interamente dedicati alla letteratura, e alla stesura di sceneggiature su incarico, e ora è felice, felice davvero, di aver scritto la sceneggiatura del suo film. Nel silenzio radiofonico la sua felicità assomiglia ad un brusio, ad un crepitio del microfono, un gorgogliare leggero di spuma.
E di nuovo nel labirinto dei corridoi verso l’uscita Lucia e Sergio scherzano, ammirano, commentano, e quando, chissà come, finiamo a parlare dello strano nome del padre della protagonista, Kraken e chiediamo se sia nome comune in Argentina. Sergio dice “no, no” Kraken è il nome di un animale marino, una bestia feroce, ferocissima, del mito scandinavo, che si innalzava sul mare e sbaragliava le navi. “Ma lo abbiamo scoperto solo dopo, vero?” Lucia annuisce, il nome Kraken era già nel racconto di Sergio, ed è stata Lucia a dargli la professione di biologo marino. Spiegano e raccontano. La descrizione del misterioso animale risuona tra gli echi delle risate e i passi veloci nei corridoi, si unisce alle figure di ladri bambini, di cameriere saffiche, di aeree creature che popolano il mondo di Lucia, e le creano attorno un alone incantato. Anche adesso che, usciti in strada, Lucia ci saluta, agita a lungo la mano: domani Taormina, poi la Germania, e in fondo agli occhi, forse per effetto del caldo, un’ombra fugace, una leggera nostalgia, sembra, per la reclusione della scrittura.

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