Fernando Gentilini: i Balcani, appena sotto la superficie delle cose

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Fernando Gentilini è diplomatico di professione, e molto altro, come si legge nel risvolto di copertina del suo ultimo libro. A me è capitato di incontrarlo anni fa, a casa di amici, durante i suoi brevi soggiorni in Italia.

Fernando Gentilini è diplomatico di professione, e molto altro, come si legge nel risvolto di copertina del suo ultimo libro. A me è capitato di incontrarlo anni fa, a casa di amici, durante i suoi brevi soggiorni in Italia. Se ne stava in silenzio, attentissimo e insieme spaesato tra i riti delle serate romane, come se una parte della sua persona faticasse a staccarsi dai luoghi da cui era appena tornato e dei quali difficilmente parlava. Ma se, inavvertitamente, si lasciava convincere a raccontare, allora a chi ascoltava capitava di provare il piacere antico dei racconti di viaggio, delle avventure di scoperta. Nel primo libro di Fernando Gentilini, In Etiopia, avevo ritrovato la passione e la curiosità che, nelle sere romane, gli accendevano lo sguardo. E libri, tantissimi libri che lui ha letto e di cui non parla mai.
Così quando un amico comune mi dice che Fernando ha pubblicato un libro sui Balcani e lo presenta a la Feltrinelli della Galleria Colonna, sui due piedi mi offro di accompagnarlo. Arriviamo in anticipo, e sfogliamo una copia del libro che occhieggia dagli stand: Infiniti Balcani Viaggio sentimentale da Pristina a Bruxelles (pubblicato da Pendragon). Il grigio della copertina, a guardarlo da vicino, si anima ipnotico sotto gli occhi, difficile distogliere lo sguardo dalla scena ritratta vitalissima e lugubre. La foto, leggo all’interno, è Viaggio al termine della notte di Carlo Spera: la sagoma nera di un ragazzo avanza lungo una strada, attraverso una distesa deserta; attorno a lui, e ovunque sotto i nostri polpastrelli premuti sulla copertina, volano uccelli neri, in una sorta di danza, veri signori della terra.
La foto, ho scoperto più tardi, fa parte di un libro che ricorda i venti anni dall’esplosione di Chernobyl. Ma, seduta a la Feltrinelli, mi aveva portato il ricordo delle parole di Fernando una sera: ci raccontava del Campo dei Merli, Kosovo Polje, una terra brulla oscurata dai merli da cui viene il nome Kosovo, dal serbo kos, uccello nero. E di come in questa piana, dove i merli sui rami continuano ad aspettare il vento per lanciarsi in volo, in un tempo lontano siano iniziati il mito e la tragedia serba. Il 28 giugno del 1389 – giorno di San Vito – il principe Lazar, capo dello schieramento serbo, fu sconfitto dall’esercito turco. Fu la fine del sogno imperiale serbo e l’inizio della penetrazione turca, eppure Lazar prima di morire sul campo di battaglia ebbe in visione la Gerusalemme celeste. La sconfitta terrestre e la vittoria divina del Campo dei Merli, raccontava Fernando, impregnano lo spirito serbo e il suo misticismo: fatto di sangue e di gusto per la morte. Una mistica che celebra l’autoannientamento e la disfatta, purché di dimensioni bibliche. E ancora oggi la festa di San Vito è festa grande nelle enclave serbe, ci diceva mentre le sue parole evocavano davanti ai nostri occhi figure di principi, di santi re medioevali, di monasteri ortodossi, dove Fernando stesso ha trascorso del tempo. Oasi di pace nel frastuono della guerra.

Ma ora qui il frastuono è quello della molta gente assiepata, tra cui esponenti del mondo diplomatico, e della voce che ci informa che stiamo per iniziare. Accanto a Fernando è seduto l’ex corrispondente della CNN dai Balcani che esordisce scherzando sulla scarsa generosità dell’autore che all’epoca non gli ha passato neanche uno straccio di informazione riservata. Comunque il libro, dice, scritto dal punto di vista personale di un viaggiatore, gli ha restituito l’emozione profonda di ritornare in quei luoghi di cui ora non si parla più. E racconta di quando, negli anni 90, ogni volta che si spostava nei Balcani, dovunque arrivasse, il personale dell’albergo cominciava a scambiarsi sguardi e bisbigli preoccupati e, quando sorpreso chiedeva spiegazione, gli dicevano torcendosi le mani ” se lei è arrivato qui, se è arrivata la stampa, allora vuol dire che ci sono guai in vista”

Fernando spiega che scrivere gli serve a capire meglio il lavoro che fa, le tante esperienze vissute dal diplomatico. “Se non ne scrivo, non posso essere sicuro di avere capito e nei Balcani impari da subito che se una verità è semplice allora è una bugia.”
Si avverte in lui una ritrosia a soffermarsi sul suo versante di scrittore, forse è il pudore del diplomatico, di chi sa che chi lo ascolta lo conosce in una veste diversa di cui è difficile spogliarsi. Il lavoro di diplomatico, dice, gli dà lucidità nel vedere le cose, il lavoro di scrittore la curiosità. Il libro è anche frutto di tanti incontri nelle strade e di tanta letteratura balcanica letta, ma non è stato facile trovare il registro per scrivere la storia. Difficilmente, spiega, si parla della passione, dello spirito vitale, dell’entusiasmo dei popoli balcani che ricorda il fervore e l’energia della nostra Europa dopo la Grande Guerra. “Io, a costo di sembrare ingenuo, ho voluto scegliere per il mio libro una nota allegra, gioiosa.”

Il corrispondente della CNN, parlando della possibilità di conciliare il ruolo dello scrittore e quello del diplomatico, porta l’esempio di Ramush Haradinaj capo dell’UCK l’Esercito di Liberazione del Kosovo: un uomo che incuteva un timore enorme, faceva paura a tutti, dice. Nel libro si racconta la storia di Haradinaj, una delle tante leggende dei Balcani: buttafuori nelle discoteche di Zurigo, tornato in patria fonda un partito, sposa una conduttrice televisiva, si costruisce un’ enorme villa di cemento armato con piscina nel salone. Diventa Primo Ministro e nei suoi cento giorni al potere stupisce tutti per efficienza e idee chiare. Ma quando arriva il mandato di cattura del Tribunale Internazionale dell’Aja si dimette all’istante. Fernando racconta delle notti insonni in cui leggeva i capi d’accusa e le ricostruzioni dei fatti: gole tagliate, orecchie mozzate, stupri, e rivedeva il sorriso, il volto simpatico dell’uomo accanto al quale aveva lavorato per mesi e che a Pristina, il giorno dopo la sua partenza, era già diventato leggenda: molti dicevano che non era partito per l’Aja, qualcuno giurava di aver visto il suo profilo in controluce, dietro le finestre della grande villa.

E di nuovo come se l’incursione nella letteratura, l’immagine dell’uomo che scrive di notte dopo l’incontro con il capo dell’UCK, lo avesse messo a disagio Fernando si affretta a dare la parola ad un alto rappresentante di Serbia in Italia. Un bell’uomo, dai tratti del volto nobili e i modi eleganti il quale spera che il libro venga letto presto anche nei Balcani. Esita un istante poi parla di una lingua che lui ha studiato a scuola e che aveva un nome, ora sono quattro lingue, con nomi diversi, stesso lessico, e stessa sintassi. Lui spera che il libro venga tradotto presto in queste quattro lingue. E lì, in piedi, nella sala con il suo sorriso malinconico, lo stupore nel viso, con la sua lingua che non esiste più, sembra il superstite di un tempo scomparso.
Un’autrice televisiva racconta del viaggio fatto con Fernando in Albania di cui si parla nel libro: dell’affabilità degli albanesi di pianura, dell’Albania raffinata della costa sud vicina alla Magna Grecia, abituata alle convivenze, dove le persone e i paesaggi sono aperti e delicati. E dei bunker, dell’infinità di bunker, dei tempi di Enver Hoxha, che trafiggono le coste dove le famiglie prendono il sole, famiglie unite vecchi e giovani insieme, i ragazzi che vanno pazzi per l’Europa, ma se fai il bagno e alzi gli occhi, dall’acqua, vedi solo bunker.
E come se l’immagine avesse evocato un sopito fantasma, come se tante parole fossero state solo un preludio, ecco l’eterna domanda che ritorna, difficile capire chi l’abbia pronunciata, sembra essersi composta da sola nell’aria: perchè è successo quello che è successo, come si è potuti cadere in tanto baratro?
Gli sguardi di tutti si accendono della luce strana, della bramosia che riempie gli occhi quando le risposte sfuggono. E’ un tema che a Fernando sta a cuore, sta a cuore a tutti. Fernando non crede nel tribalismo: il luogo comune che farebbe dei Balcani una terra senza speranza abitata da popoli divisi da odi insanabili, irriconciliabili. Ciò che è successo negli anni ’90, a suo giudizio, è la conseguenza della cattiva politica, di cattivi politici. Lo dice con il suo tono fermo, pacato, poco incline agli eccessi. Lui non crede alla teoria del tribalismo. Ripete e racconta la storia riportata nel libro, raccontatagli da un suo amico, un peacekeeper di Bosnia: la storia di un adolescente serbo che aveva per anni portato a spasso in carrozzina il suo migliore amico, un coetaneo musulmano disabile. Un giorno del ’93, apparentemente uguale a tutti gli altri, l’adolescente serbo, durante la consueta passeggiata pomeridiana, decide di uccidere il coetaneo disabile lanciando la carrozzina contro le vetrine di un negozio.
Perché è successo? Nessuno sa dirlo. La risposta immediata è la cattiva politica, ma, deve accorgersi Fernando, forse da sola non basta. E dice “c’è una tesi letteraria: c’è chi dice che le distruzioni, l’ondata della distruzione sia nata lì dove l’umanesimo e il rinascimento non erano mai arrivati, qualcuno ha parlato della rivolta delle campagne contro le città. Ma il perché sia successo non lo sa nessuno”
Neanche nei Balcani. La politica nei Balcani appassiona tutti, tutti parlano di politica. Ne parlano le donne, le meravigliose donne slave che hanno stregato il cuore del diplomatico e dello scrittore, le donne acrobate che ballano nei barconi, bevono rakija e parlano di politica.
E a me viene alla mente lo stupore di Fernando certe sere quando ci parlava dell’euforia, della fame di sopravvivenza, del segreto della vita e della morte che forse si rivela per brevi istanti a chi è stato circondato dall’orrore. Ci raccontava delle feste che organizzavano nei bunker, nei rifugi sotterranei a Belgrado durante i bombardamenti della NATO. Fino all’ora di uscire, nel grigio dell’alba, tra case sventrate e strade divelte. Bunker allestiti nello stile delle discoteche più trasgressive, ragazze che sfoggiavano gli abbigliamenti più estremi. Tutti giù nel bunker a festeggiare, a dimenticare la morte che impazza, un inno alla vita: il misticismo serbo di oggi.

Fernando ha molta fiducia nei giovani di là, c’è una voglia di Europa fortissima, un enorme entusiasmo, i ragazzi sono preparatissimi. E allora perché è successo? Perchè tanto male?
Ed è l’eterna domanda sospesa nell’aria, lacerante, a sanare forse la separazione tra diplomatico e scrittore, la domanda è la stessa, diverso solo il campo dove si cercano le introvabili risposte. Per un istante in sala cala il silenzio. Poi tra il pubblico dilagano le discussioni, gli interventi, possibili parziali spiegazioni. Lo scrittore tace.
(“Ciò che resta da scoprire e da spiegare” ha scritto Pedrag Mtavejevic , citato da Fernando “è come l’odio abbia potuto prevalere a tal punto sull’amore, la ristrettezza di spirito sulla generosità. Come il male proveniente da chissà dove – dalla vita o dalla storia – abbia potuto opporsi al buon senso, soffocare in tal modo l’intelligenza.”)
Il tempo è volato via e ora che siamo alla fine, quando qualcuno comincia a cercare l’uscita nella sala affollata, mentre tra il pubblico continuano i piccoli focolai di discussione, Fernando si alza in piedi e dice “In Kosovo ho letto Pasolini e ho scoperto l’accezione negativa della parola tolleranza…da allora non l’ho più usata.” E legge dalle Lettere Luterane un passo riportato nel libro:

(…) Il fatto che si tolleri qualcuno è lo stesso che lo si condanni. La tolleranza è anzi una forma di condanna più raffinata. Infatti al tollerato si dice di far quello che vuole, che egli ha il pieno diritto di seguire la propria natura, che il suo appartenere a una minoranza non significa affatto inferiorità ecc. Ma la sua diversità – o meglio la sua colpa di essere diverso – resta identica sia davanti a chi abbia deciso di tollerarla, sia davanti a chi abbia deciso di condannarla (…).

E così l’incontro finisce, ma da una rapida scorsa al libro, prima dell’inizio, ho intravisto tra le pagine, tra i tanti autori citati, letteratura straniera e balcanica, le tracce dei monasteri e delle antiche leggende, dei racconti con cui il diplomatico incantava i suoi ascoltatori serali: la fantasticherie oniriche dei macedoni, le colline di Sarajevo trasformate in immense distese di camposanti, la Città Bianca che torna ad essere Belgrado certi giorni in cui il vento spazza via i fumi pestilenziali e dai bastioni della fortezza una luce bianca innaturale inizia ad irradiare il cielo. Della sensazione provata a Pristina, riferita dai molti che vi hanno lavorato, di avvertire una speranza e anche una tenerezza nell’anima kosovara, tra gente indurita come la terra dal vento, tra bambini che rovistano i rifiuti insieme ai cani randagi, tra colline di scorie tossiche, scarichi e liquami, filo spinato e campi minati. “Un’anima che non si vede, ma che si può sentire pulsare come un cuore. Appena sotto la superficie delle cose.”

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