Leggere libri sul jazz non è che aiuti. Di solito si tratta di biografie che spiattellano semplicemente vite in sfacelo, aneddoti intriganti sulla perdizione e sull’autodistruttività. A volte possono anche avere l’effetto opposto all’accostarsi a un musicista o a un altro perché poi il giudizio fa capolino: scoprire che una musica meravigliosa è stata suonata da fattoni alcolizzati, se non drogati fino al midollo, gente che viveva quasi come barboni, anche se accende una sorta di archetipo romantico dell’artista che butta via la propria vita, non rende giustizia alla grandezza musicale. Gli eroi diventano antieroi. Certo si può esaltare l’antieroismo. Il punto però non sta lì. E’ quasi pericoloso. Non è la vita dissoluta che rende grande un musicista. La sua musica è una parte distaccata, che vive autonomamente. Altrimenti tutti i disperati sarebbero artisti. Preconcetto dal quale guardarsi bene.
Scindere l’arte dal creatore dell’arte è essenziale. Salva.
Ecco perché le biografie dei jazzisti sono pericolose. Ce ne sono poche che vale la pena affrontare. Una di queste è “Thelonious Monk himself”, appena riedita da minimum fax, scritta da Laurent De Wilde. La differenza rispetto alle altre biografie è che suona. Sissignori. Suona proprio. Sarà che chi narra è pure un musicista. Ma soprattutto chi narra ha il dono della parola scritta e dell’entusiasmo.
Ho imparato moltissimo leggendola.
Ad esempio:
“Sono le leggi dell’orecchio umano: sentiamo dal basso verso l’alto, bisogna farsene una ragione. Il bassista ha sempre ragione, non si discute. Quanto al batterista, stessa storia: inchiodato al bassista, è lui che fissa saldamente, che amplifica il tempo. Il contrabbasso fa uno schizzo del tempo, appena una pulsazione fondamentale, e la batteria lo disegna a inchiostro di china. Precisione cristallina del piatto. Commento sagace e fitto del rullante associato alla cassa a pedale. Rilievi, contorni, sottintesi, porte che si aprono e si chiudono in un tremolio di pelle! E se il batterista ha deciso di suonare Summertime a tempo di tango, non c’è che da inchinarsi, lo si può sempre maledire dopo il concerto, ma in quel momento bisogna andare con lui. E’ Panurgo al contrario: è quando non lo si segue che si va a fondo… il basso e la batteria sono gli strumenti dell’orchestra che ci tengono in contatto con la bellezza antica del ritmo: la corda del budello che si tira, la pelle che si batte, non c’è niente di più carnale, di più animale di questo”.
Oppure la rivelazione sul significato dell’essere boppers. Thelonious Monk è stato battezzato come il “gran sacerdote del bop”. E questo perché la sua musica è puro pensiero. Non è gambe. Pur correndo, come tutti i boppers, in accelerazioni incredibili, corre al contrario, corre nei silenzi. E’ strano a dirsi. Ma ascoltare per credere.
De Wilde spiega:
“Monk scrive nel suo angolo. Ed è in quanto compositore che, da quando è ammesso nel giro dei musicisti giusti di Harlem, si impone senza pari. Gli altri jazzisti concentrano i loro sforzi su tecniche di improvvisazione, vale a dire come suonare velocemente e bene armonie complesse che si sovrappongono a quelle che si è abituati ad ascoltare. Monk, non proprio. In effetti, lui sviluppa la sua improvvisazione in funzione dei pezzi e dei tempi che ha scelto. Non suonerà per niente lo stesso tipo di frase a seconda che il brano eseguito sia una ballad o un ‘veloce’. I boppers, al contrario, prenderanno l’abitudine di suonarsi a casa una frase lentamente, poi sempre più rapidamente, fino al punto in cui riusciranno a raggiungere la velocità desiderata. Ne risulta, negli ‘up-tempos’, un effetto strabiliante, perché si ascolta una musica che va troppo in fretta per le orecchie. L’abilità del bopper consisterà dunque nel concatenare in una scansione costante frasi che sono tutte piccole meraviglie di intelligenza musicale, di cui non si apprezza tutto il sapore che qualche secondo dopo averle ascoltate, in una sorta di cascata estatica. Una collana di perle rare, infilate una a una a tutta velocità. Quel che porterà Thelonious a dire: ‘sono degli assoli lenti suonati a un ritmo accelerato’”.
Beh, io il bop finora non lo avevo capito così bene.
Ma c’è un punto importante al quale accennavo e che mi rende vicina a Monk, al suo modo di suonare il pianoforte. Spesso quando devo prendere decisioni importanti metto su “Monk alone”, sue registrazioni di solo piano. E avviene un’alchimia. Inizio ad avere tutta una serie di intuizioni che mi portano all’agire. Solo il silenzio più rarefatto mi fa lo stesso effetto. Questa storia dei silenzi è alla base. Spesso si ha l’impressione di perdere tempo, di essere inconcludenti. In chi scrive, poi, la cosa si amplifica. Far passare giorni e settimane senza riuscire a tirare fuori nulla di buono può mandare ai matti. Si entra in un circolo vizioso. E invece il tempo, e questo non lo si ricorda mai abbastanza, non è mai tempo perso:
“Spesso il silenzio è sinonimo di assenza, di vuoto. Bisogna gridare per esistere. Quando non si dice niente, significa che non si pensa niente. Non è certo da Thelonious (…). Il silenzio non è una sospensione, ma una riserva. Una riserva di fiato, di idee, di musica. Monk crede a questa riserva, inesauribile, che è il silenzio. Sente la musica mentre la suona e non ci sono musicisti di cui lo si possa dire. Allora perché parlare, nella vita? E’ un lusso! Ha un piccolo giradischi in testa, che suona tutto sempre, là dentro. E poi ci si può osservare, sentire, ascoltare, senza dover aprire il becco! (…) E’ troppo futile, una parola, può avere qualunque significato, e domani sarà il contrario di ieri. E’ per questo che le parole di Thelonious sono battute: sono parole che non credono in se stesse, sono parole buffe, istantanee, che affondano contemporaneamente nell’essenziale, poiché rifiutano il senso che si dà loro abitualmente (…). Quando apre la bocca, è nella maggior parte dei casi di una franchezza disarmante. Non si preoccupa delle convenzioni. Gli piace andare immediatamente al fondo del problema. E ci si rende conto del fatto che, quando non si fanno troppe storie, non c’è nessun problema a frequentare Thelonious. Basta solo essere se stessi”.
C’è ovviamente molto di più nel libro di De Wilde: c’è la vita di Monk, c’è l’ambiente del jazz degli anni ’40 fino alla morte il 17 febbraio 1982, e in mezzo tutta la difficoltà ad essere riconosciuto un grande musicista qual era (ci arriva tardi, lui), il suo rapporto con le donne, con gli altri musicisti, con le etichette discografiche, coi produttori, per arrivare infine alla sua “dissolvenza al nero”, anni bui nei quali la pazzia prende piede e si impossessa di lui fino ad espandere il suo silenzio oltre ogni misura, chiudendolo in una lunghissima morte muta, in quel silenzio indissolubilmente legato alla sua musica.
E qui c’è un ulteriore fatto che mi preme mettere in evidenza. Monk muore a casa di Pannonica, l’erede Rotschild che ha avuto cura di moltissimi jazzisti. Anche Charlie Parker è morto a casa sua, ultima spiaggia per uomini ridotti a pezzi anche per via delle droghe che assumevano regolarmente.
Sabato scorso c’è stato un convegno promosso dalla rivista “Lo Straniero” in collaborazione con “Civita”. Il tema era “disagiati e disagianti” e affrontava lo scollamento tra le effettive esigenze di chi vive un disagio (inteso in senso ampio: giovani, donne, bambini) e di chi opera nel campo del sociale e non-profit. Metteva in luce “tutta l’incosciente cospirazione di una società disposta a mutare i propri figli, nel corpo e nella mente, pur di eludere le contraddizioni reali alla base del disagio”, come si poteva leggere nell’invito. Confesso che il motivo per il quale mi sono svegliata presto di sabato mattina è stato voler sentire un intervento di Gianfranco Bettin: “Perché è morto Charlie Parker?”. Ebbene, Bettin partiva da un’affermazione del batterista Art Blakey: “Charlie è morto cercando di fare ciò che gli chiedeva la società: cercava di smettere di farsi, ma lo fece in modo sbagliato, iniziando a bere”. Morì dunque cercando di uscire dalla propria nevrosi. Parker in effetti era anomalo in quanto drogato di eroina e di benzedrina: suonava in continuazione e passava da una donna all’altra con una energia sorprendente. Dunque Parker è stato ucciso in qualche modo da una certa coazione sociale che impone una cura all’anomalia, sia fisica sia psichica e curare in certi casi vuol dire ammazzare quel disagio creativo che è alla base di molti artisti. Questo è detto da chi scrive in parole povere ma è interessante la visione più ampia del mettere in evidenza, certo attraverso una forte provocazione, che in effetti viviamo in tempi nei quali il benessere psichico e il raggiungimento della serenità sono una grande chimera, che portano al perseguire un ideale di standardizzazione borghese che esalta una felicità mediocre (mediocre in quanto standardizzata), che non fa altro che produrre infelicità individuale. In questa critica si inserisce anche l’attacco alla psicologia: al convegno è stato evidenziato quanto finire nelle mani di psicologi può condurre alla follia. E in effetti, guardandosi intorno, il ricorrere all’analisi è ormai pratica diffusissima e spiattellata in salotti come andare in palestra. Cosa alquanto agghiacciante. Ma, restando in argomento, e con un salto faticoso che mi aiuta a riprendere il discorso iniziale sulla biografia di Monk, nel libro è riportata una frase di Freud che mi pare di grande saggezza: “Un artista è un nevrotico che si prende cura di sé”.