Chagall e l’apparente fuga dal reale

di

Data

Non è stata Cenerentola a rovinarmi. Nemmeno Biancaneve. Per un po’ ho pensato che fosse colpa della Bella addormentata nel bosco. No, nemmeno lei. È stata un’altra Bella a rovinarmi...

Non è stata Cenerentola a rovinarmi. Nemmeno Biancaneve. Per un po’ ho pensato che fosse colpa della Bella addormentata nel bosco. No, nemmeno lei. È stata un’altra Bella a rovinarmi, Bella Chagall. Dopo aver letto il suo “Diario Sentimentale”, ho iniziato a fantasticare. Ci ho creduto che potesse esserci un amore come quello che lei descrive. Ho amato Marc Chagall come uomo, non come pittore. Ho amato l’uomo che ha descritto Bella.

Non potevo evitare di andare a vedere la mostra appena allestita al Vittoriano di Roma, con 180 opere esposte. Non potevo non andare ad ammirare l’uomo che amavo, timido, folle, individualista, generoso, con la testa sempre apparentemente aria. Ho scelto un sabato sera, sperando che non ci fosse tutta la folla che c’è durante il giorno. È pur sempre una delle mostre-spettacolo romane, alle quali ci stiamo abituando. E invece, nonostante fossero le otto e mezza di un sabato sera, gli spazi erano abbastanza affollati. Perlopiù coppiette giovani, tutti carini, abbracciati, incredibilmente somiglianti tra loro: alti con alti, bassi con bassi, eleganti con eleganti, alternativi con alternativi. Il conformismo nella coppia sembra inevitabile come quello tra cane e padrone.

Chagall è per la gran parte della gente un pittore romantico, un pittore che ha dipinto amanti abbracciati, sposi fluttuanti, colori vivi e nitidi, atmosfere sognanti, bambinescamente sospese. È per questo che piace. Ed è per questo che piace alle coppie. Ogni coppia si identifica nella sensazione amorosa di sospensione dalla realtà o forse la ricerca raffigurata per ritrovare quella sensazione che di solito si manifesta ma evapora inevitabilmente dopo il primo periodo di innamoramento.

C’è ovviamente un aspetto più profondo in Chagall. Il merito della mostra va ammesso: dare uno spessore all’arte chagalliana, ai più sconosciuto.
“Ai nostri giorni è difficile per un artista ricordarsi di non essere che un artista. Benché mi accada talvolta di tenere una penna in mano o di prendere la parola, penso in cuor mio: non sarebbe meglio tenere la bocca chiusa?
Parecchi anni prima della guerra ebbi a dire: davvero soltanto gli artisti debbono cercare di giustificare la vita nell’arte, mostrare la via nell’arte? E gli altri uomini non dovrebbero anch’essi mostrare la loro arte collettiva di vivere? È troppo poco per un artista restarsene per suo conto a lavorare ed essere in tal modo utile agli uomini e al suo popolo? Perché? Qual è la forza che oggi lo porta via dal suo posto? Non basta che l’arte si rivolga dalla tela ai nostri occhi e al nostro cuore?”
Eccolo qui il senso della vita artistica di Chagall e la relazione con il suo vasto pubblico. Per il pubblico che rimane sognante ad ammirare le sue tele, basta: l’arte si rivolge dalla tela ai loro occhi e al loro cuore. Per Chagall non è così: i suoi dipinti, tutti, contengono certamente un apparato simbolico, metaforico e di pensiero che è la base del suo lavoro di artista e di uomo del suo tempo.
Il mezzo è quello della sfera emotiva e irrazionale. Ma il contenuto rimane ancorato a una poetica intrisa di elementi religiosi e allo stesso tempo reali, mischiati tra loro. Chagall ha avuto il merito di superare la dicotomia tra l’irrazionale della fede e la realtà quotidiana, unendole attraverso la creazione di una realtà trascendente e secolare, che si nutre di colori e dell’abolizione della plasticità dei corpi. Gli oggetti, gli animali, le figure umane, le case, le emozioni, hanno tutte un unico codice visivo, non sono separati da nessun elemento formale. Non ci sono sfondi separati, per cui non c’è una narrazione. È di sicuro il meccanismo onirico ad essere inscenato, quello stesso meccanismo che appartiene alla fantascienza e alla premonizione, che si nutre di mondi possibili.

“Chagall ha tirato fuori, dai visceri, il paradiso che gli apparteneva. Possiamo persino odorarlo: sa di cuoio, sa di lucerna, sa di pane, sa di panni lungamente lavati. Non è un paradiso di angeli con trombe e spade, non è un Aldilà trionfante. È un Aldiqua che raccoglie i simulacri della vita, è un luogo fisico che diventa metafisico proprio perché noi tutti l’abbiamo ucciso durante la vita quotidiana”. Mi hanno molto impressionato queste parole di Giovanni Arpino. Credo che siano vere, credo che la fortuna e il successo di Chagall risiedano proprio nella fame che ha il pubblico di tornare a sensazioni, massacrate e dimenticate dalla praticità del vivere. D’altronde Chagall, ebreo di nascita e praticante, impregnato di riti contadini e di favole, di universi irrazionali della fede, ha mantenuto costante il suo riferimento di partenza. La parte della mostra più interessante è proprio la sezione che raccoglie il modo unico e anticonformista di raffigurare il suo popolo. Lo fa, sbalestrando, utilizzando il Cristo. Il simbolo della cristianità diventa simbolo della sofferenza e del martirio ebraico. E questo, paradossalmente, diventa un messaggio pacifico e di convivenza ma anche di denuncia degli imminenti tragici accadimenti delle persecuzioni naziste. Ecco, il senso della profezia.
Come ogni grande pittore, anche Chagall ha lasciato i suoi scritti, i suoi appunti sull’arte ma soprattutto ha usato le parole per esprimere se stesso, raccolti nel volume “La mia vita”, tradotto in francese dalla sua Bella. Anche la sua scrittura è come la sua pittura. Apparentemente irrazionale ma densa di rimandi alle origini e alla sua terra e sorprende proprio la pagina finale di questi scritti:
“Queste pagine hanno lo stesso senso di una superficie dipinta. Se nei miei quadri ci fosse un nascondiglio, potrei infilarvele… O forse si incollerebbero sulla schiena di uno dei miei personaggi o sui calzoni del Musico della mia pittura murale?…
Chi può sapere ciò che sta scritto sulla sua schiena?
All’epoca R.S.F.S.R., grido a volontà:
“Non sentite come scivolano sotto i nostri piedi le nostre impalcature elettriche?
E non erano giusti i nostri presentimenti plastici – poiché ci troviamo coi piedi per aria realmente e soffriamo di una sola malattia: la sete di stabilità?”
Quei cinque anni ribollono nella mia anima. Sono dimagrito. Ho persino fame.
Ho voglia di rivedervi. B…, C…, P… Sono stanco.
Ritornerò con mia moglie, con mia figlia.
Mi sdraierò accanto a voi. E forse l’Europa mi amerà e, insieme a lei, mi amerà la mia Russia”.

Altri racconti
in archivio

Sfoglia
MagO'