Strana gente di Edimburgo

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Abbiamo un amico, poeta, ex professore di filosofia. Vissuto da sempre ad Edimburgo, ne conosce ogni angolo, ogni pietra. Da qualche tempo, per il lavoro della moglie, si è trasferito...

Abbiamo un amico, poeta, ex professore di filosofia. Vissuto da sempre ad Edimburgo, ne conosce ogni angolo, ogni pietra. Da qualche tempo, per il lavoro della moglie, si è trasferito nei Borders, nel sud della Scozia al confine con l’Inghilterra. Ci sono giorni, mi ha raccontato, in cui lo prende una smania, come una paura, e allora salta su un treno e viene a camminare per le strade di Edimburgo per essere sicuro di riconoscerla ancora, questa città avida di novità, aperta ad ogni vento dove nessuno, dice lui, si sogna di contrassegnare niente. Di mettere un’iscrizione, una lapide in ricordo, in memoria. L’ho conosciuto in un parcheggio accanto alla Cattedrale: un anziano signore accovacciato accanto ad un furgone come un meccanico che controlli una perdita d’olio. Desiderosi di aiutarlo a ritrovare un oggetto caduto, china anch’io nella posa del meccanico, non vedo altro che ciottoli e una busta accartocciata, finché mi sembra di scorgere una piastrella diversa dal resto della pavimentazione. “Eccola” lo sento mormorare soddisfatto, sollevato. Fa scivolare sulla mattonella un fiore secco raccolto dal fondo delle tasche. Anticamente, mi ha spiegato rialzandosi e scuotendosi la polvere di dosso, lì c’era un cimitero e quando poi hanno deciso che era più comodo avere un parcheggio non si sono scomodati a trasferire le tombe in chiesa. Su quella di John Knox, il calvinista distruttore di chiese, per non confonderla ci hanno messo una mattonella. “È questa mania del festival, cose nuove ogni anno e il resto si butta”. Lasciato John Knox a riposare sotto il furgoncino, saputo che anche io sono a zonzo, mi propone di accompagnarlo in un altro cimitero: vera meta del suo viaggio odierno. John Knox era solo una sosta intermedia.

È cominciato così il primo di tanti pomeriggi in cui il poeta, uno zuccotto di pelliccia in testa, un lungo cappotto sbottonato, a grandi passi mi guida per la città mostrandomi del passato le insegne che mancano. (In cambio io lo tengo aggiornato, “a piccolissime dosi” si raccomanda, sulle novità di oggi, sul presente che incalza.)

Addossato alla chiesa dei Greyfriars, in pieno centro, il cimitero in cui entriamo ha tutte le carte in regola, contrassegni e quant’altro anche se a causa dell’esplosione di una attigua polveriera e delle lacune del registro parrocchiale le lapidi, mi spiega, sono solo vagamente indicative dell’effettiva ubicazione degli estinti: letterati illustri, giudici assassini, spiriti maledetti, i resti di un cane che per anni ha vegliato la tomba del padrone. Qui riposa anche William McGonagall il World’s Best Bad Poet, l’autore dei versi più brutti al mondo. Ma il mio nuovo amico in realtà oggi è venuto qui dai Borders per studiare una grande struttura di ferro davanti alla quale ci fermiamo affondando nella terra fresca. All’apparenza ancor meno interessante della piastrella del buon Knox, pure il poeta la guarda e la rimira. Si piega, si accoscia, la studia da ogni lato. Io aspetto, inutile attorno cercare una scritta, una spiegazione. Il poeta ne schizza veloce il disegno su un foglietto di carta. Mi spiega che l’altra notte ha sognato questa struttura. E la mattina di getto ha scritto un sonetto. Mi spiega che è uno dei pochi, forse l’unico esemplare, rimasto al mondo delle gabbie in cui, nell’ottocento e ancor prima, venivano deposte le bare per impedire che i cadaveri venissero trafugati. “Mortsafes le chiamano. Cassaforti della morte. Una struttura piena di spunti”. Mi dice saltellandogli attorno.
Un tempo, mi spiega, nei cortili delle chiese si scatenava una vera caccia al cadavere. E parenti e amici erano costretti a vegliare i loro morti finché restavano appetibili per i trafugatori di salme, i resurrection men, gli uomini della resurrezione.

“Quelli del racconto di Stevenson” Dico io “Il trafugatore di salme”. E il poeta mi guarda sorpreso. “Saprai anche di Burke e Hare”. Io li ho sentiti nominare. Ma dove? Sono la coppia diventata famosa perché ammazzavano la gente per vendere cadaveri ai medici per le lezioni di anatomia.
Il poeta si infervora. Mi dice che c’è un posto che dobbiamo vedere, dove di notte Burke e Hare scaricavano il loro bottino e riscuotevano i soldi. Un incrocio di strade eleganti qui vicino “Ora l’ospedale non c’è più, ma è rimasta l’atmosfera, e poi c’è un cancello con la storia di un poeta, un amico di Stevenson.” Una bella storia che il poeta mi vuole raccontare.

Fatti pochi metri imbocchiamo una traversa deserta. In fondo, solitaria, si staglia la facciata neoclassica di quello che un tempo era l’ospedale. Spariti i rumori del centro c’è solo il sibilo del vento e il rumore dei nostri passi sui ciottoli umidi e scivolosi. Edimburgo all’epoca era famosissima per la chirurgia, racconta il poeta, era tutto un fervore di scoperte, di sperimentazioni. Sembra di vederlo, oltre la facciata, il grande teatro anatomico, i professori chini sui cadaveri attorniati di studenti in una brama di incidere, aprire, una dissezione dopo l’altra.
Oggi, sabato, il cortile è vuoto, attorno non si vede anima viva, porte e finestre sbarrate, un silenzio di piombo. Cerchiamo di proteggerci come possiamo dal freddo gelido, arrivato improvviso. Per le autopsie fino al 1832, spiega il poeta, si potevano usare solo cadaveri di criminali giustiziati che, però, non erano mai abbastanza. E così la prassi era quella di procurarsi i cadaveri nei cimiteri. Ma con i parenti che vegliavano la freschezza non sempre era garantita. Allora Burke e Hare si sono messi ad ammazzare prostitute, disgraziati, poveracci. Gli rifilavano una buona dose di whisky, li soffocavano ed erano pronti per la consegna. Erano sette sterline a cadavere quando in media un artigiano ne guadagnava quaranta l’anno. Alla fine si erano impigriti e hanno cominciato a far sparire gente del quartiere, chiunque gli capitasse sotto mano. Burke venne impiccato e poi seguì la strada delle sue vittime sul tavolo di dissezione. Hare se la cavò testimoniando contro di lui. Knox, il medico che li pagava, ne uscì senza un graffio. I chirurghi dopo, in perenne ricordo del loro malaffare, hanno preso la testa di Burke, gli hanno fatto il calco con i segni delle funi sul collo, e l’hanno esposta nel loro museo. Con la pelle di Burke hanno rilegato un libro di testo. Esposto anche quello. Il poeta si tocca la fronte con un dito. “Strana gente”

Il cielo si è coperto di nuvole nere, dense. Portate dal vento. E nel buio cha grava attorno, l’armoniosa eleganza, la razionalità della facciata neoclassica sembrano una beffa, un’irrisione alla razionalità dell’uomo. Con la coda dell’occhio colgo un movimento alle mie spalle, un viso grosso rugoso, un camice. Un’apparizione emersa dalla nebbia. Cadaveri però non ne trascina, e il camice, ad un seconda occhiata, è quello delle pulizie. Il donnone serra tra le braccia una vecchia ramazza di legno e ascolta il poeta a bocca aperta, lo sguardo stralunato bianca pallida come una salma.
Il Poeta avverte lo sguardo della donna che gli sta quasi addosso e si interrompe, lei gli sorride, apre la bocca sdentata e intona una filastrocca. Dapprima incerta quasi stentasse a ricordare le parole, poi sempre più sicura e spedita.

Up the close and down the stair,
In the house with Burke and Hare.
Burke’s the butcher, Hare’s the thief,
Knox, the boy who buys the beef.

La sua voce stridula tortura le orecchie.
“Se la ricorda maestro?” Dice. Il poeta annuisce. È una vecchia filastrocca su Burke e Hare, la cantavano ai bambini per fargli paura. Mi spiega. “E a chi farebbero paura adesso, maestro?” ride lei e cantando riprende a ramazzare il cortile battuto dal vento. “Loro non li ammazzavano nemmeno i bambini.”
Le note stridule della filastrocca si mescolano al raschio della scopa che struscia nel cortile vuoto, su e giù per destare i morti di un tempo, fantasmi che si riversano inquieti nel cortile.
Il poeta segue il donnone, confabula con lei: vuole sapere se c’è ancora il vecchio teatro anatomico. E d’un tratto io mi ricordo dove ho già sentito parlare di Burke e Hare. Era a proposito di una sceneggiatura a cui stava lavorando Irvine Welsh: stessa storia trasposta in epoca moderna: vendita di organi e tratta di persone. In confronto, dicevano, Trainspotting sarebbe stata una commedia romantica. Ma il progetto deve essere stato accantonato. Leggevo ieri sul giornale che Irvine Welsh ha appena scritto una commedia, una versione al femminile di Trainspotting. Anche Stevenson aveva messo da parte il suo racconto. Doveva far parte di una raccolta dell’orrore. Ed invece gli ci sono voluti tre anni, e varie vicissitudini, per riconciliarsi con il disgusto che gli provocava la storia dei due studenti di medicina, assistenti del capo. In gioventù accoglievano i cadaveri, talvolta donne incontrate, allegre e generose, solo la sera prima. Talvolta andavano loro stessi a profanare cimiteri sperduti. Finché una notte di diluvio scavano nella tomba di una vecchia di paese e caricato il cadavere sul calesse tornano verso la città per le strade buie come la pece. Il cadavere sobbalza e sembra, nel buio, che le sue forme stiano cambiando. I seni scompaiono, le spalle si ingrossano…
“È la facoltà di architettura, adesso.” Mi dice il poeta tirandomi per il braccio. Il donnone ha detto che la sala di anatomia di Knox è qua dietro, ma non c’è nulla da visitare. È stato smembrato tutto, smantellato, portato altrove. “Ma il cancello rimane… vieni” dice il poeta con il vento che impazza tra le falde del suo cappotto. Sembra che mi guidi verso la salvezza. E mentre ci arrampichiamo per scale e scalette di pietra gelida, con la filastrocca della donna nelle orecchie, mi parla di W.E. Henley, poeta e molto altro, che fu ricoverato, qui, per due anni. Aveva perso una gamba per via di un’infezione e non voleva che gli amputassero anche l’altra. È a lui che Stevenson si è ispirato per il personaggio di Long John Silver, il pirata con la gamba di legno, de L’Isola del Tesoro.
“Eccola” siamo in un altro cortile, ugualmente vuoto e mesto e sferzato dal vento. Di fronte ad un’altra facciata chiusa, ma dalla parte della strada una cancellata spicca solitaria nella nebbia. Ed è bella davvero nel suo ferro battuto con i pilastrini di pietra intagliata, intagli che sembrano pizzi soffici, leggeri che da un momento all’altro inizieranno a dondolare nel vento.
Il poeta indica l’edificio chiuso. Mi spiega che qui prima c’era l’Old Royal Infirmary, l’antico ospedale reale, oggi demolito. E qui lavorava Lister, medico famosissimo. Prima di lui ogni infezione portava inevitabilmente alla cancrena e la cancrena all’amputazione. Ed Henley è rimasto qui dentro due anni per farsi curare da lui. Grande poeta, e critico feroce. Conrad ha detto che dopo aver avuto l’approvazione di Henley non temeva più neanche il diavolo. “E Stevenson sai cosa faceva?” Non lo so. “Ogni pomeriggio portava una poltrona da casa” mi racconta il poeta con gli occhi che brillano “e lo veniva a trovare. Se la portava in spalla perché Lister era bravissimo, ma l’ospedale somigliava ad una galera. E mica era per lui la poltrona, era per Henley… È stato il suo uomo della resurrezione. Di quella vera.” Ride il poeta.
“A spalla?…” mormoro perplessa. “Ce ne è di strada da fare”
Il poeta mi guarda “Voleva che Henley stesse comodo. Li aveva presentati il padre di Virginia Woolf, era di passaggio ad Edimburgo e ha portato Stevenson a conoscere il poeta senza una gamba di cui stava per pubblicare una raccolta di poesie. Qui Henley ha scritto Invictus “sono il padrone del mio fato, il capitano della mia anima”. Il poeta cammina su e giù per il cortile declamando i versi davanti ai pilastri di pietra intagliata. Cammina a grandi passi, la voce stentorea, da opporre al canto della donna, e ai pensieri che ha destato. “Si sono aiutati molto quei due” dice il poeta. “La loro è stata una grandissima amicizia. Avevano tanti progetti comuni. Stevenson aveva questa smania di scrivere con chiunque gli andasse a genio.”

Il poeta sospira, sembra aver perso lo slancio e guarda malinconico la cancellata. “Il fatto è che tra lui e Fanny, la moglie di Stevenson, non correva buon sangue. Forse erano gelosi. Lei pensava che suo marito si affaticasse troppo con Henley. Ed Henley partì lancia in resta e l’accusò di plagio. Anche Fanny scriveva.”
Il poeta si stringe nelle spalle.
“L’amicizia finì… ma Stevenson gli rimase riconoscente. Quella chiusa de L’isola del tesoro… sono le parole di addio all’amico.” .

Il poeta tace. Ha gli occhi umidi ma forse è la nebbia. Ed è solo una mia idea che sulla gabbia di metallo, del sonetto, giaceranno le spoglie di un amico perduto. Ora le ombre scure silenziose, destate dalla donna, fanno largo al passaggio di un uomo gracile che ogni giorno si caricava sulle spalle una poltrona e la portava all’amico malato. Perché l’amico conversasse a suo agio e magari si rimettesse in fretta. “È la lezione più grande che ho imparato da Stevenson.” Mormora il poeta. Poi mi guarda e sembra accorgersi di qualcosa “Non è prudente che tu muoia di freddo proprio qui.” E mi trascina via, oltre il cancello, dove nella nebbia già si accendono le prime luci dei pub.

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