In genere le metropoli, pur essendo artificio dell’uomo, si adattano alla fisionomia paesaggistica del luogo, arroccandosi sui monti, seguendo le rive di un fiume o accompagnando le dolci curve delle coste: palazzi antichi che seguono le curve delle colline senesi, escono delicati dall’acqua come nella Venezia lagunare, si espandono nella pianura padana, si nascondono tra le rocce appenniniche o i Sassi di Matera, e si rigenerano infine su se stessi come nella Roma imperiale.
Ma non Las Vegas. La città, il cui nome significa “valli verdi”, appare come un artificio nell’artificio, un grande falso che si svende al consumismo più sfrenato, riproducendo pacchianamente arte e storia.
Gli americani, si dice, non hanno storia. Ecco dunque che la ricreano e la rivivono in un gigantesco Luna Park, sotto l’occhio vigile del Dio Denaro.
Las Vegas non dorme mai. Sogna, invece, nelle sue grandi ricostruzioni di piazze, monumenti e interi quartieri inglobati in giganteschi casinò, nelle discoteche, nei teatri e negli immensi centri commerciali.
Una grande metropoli a luci rosse. Cartelloni pubblicitari, manifesti, bigliettini distribuiti fugacemente ai bordi delle strade da povera gente – per lo più di origine ispanica – che pubblicizzano il mercato della carne a domicilio; altro che “Pronto Pizza”, basta una telefonata a “Speedy Gnocca” ed il cliente è servito.
Insomma Las Vegas fagocita il turista, come Lucignolo fagocita Pinocchio nel paese dei Balocchi, lo incanta con mille colori e suoni come il pifferaio magico, e lo rimanda a casa contento e buggerato.
Ma chi vi si reca con sufficiente distacco critico ne uscirà sicuramente indenne, divertito e soddisfatto.
Basti ricordare che questa metropoli, per continuare a vivere e prosperare, ha bisogno del sostegno di un’economia spietata e di un governo guerrafondaio.
Porftolio
Alcune ricostruzioni all’interno degli hotel-casinò di Las Vegas
Foto di Alessandro Torrelli