Marco Baliani – L’amore buono (Rizzoli 24/7)

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Il Papa dice che per combattere l’Aids ci vogliono la fedeltà e l’astinenza. A noi convincono di più artisti come Marco Baliani, uomini che si immergono nella realtà africana, tentando...

Il Papa dice che per combattere l’Aids ci vogliono la fedeltà e l’astinenza. A noi convincono di più artisti come Marco Baliani, uomini che si immergono nella realtà africana, tentando di svolgere un lavoro pedagogico (nel senso migliore del termine). Baliani, dopo l’esperienza del “Pinocchio nero”, è tornato in Africa per mettere in piedi uno spettacolo che da un alto parlasse della marginalità presente nelle grandi metropoli di quel continente, e dall’altro ci mettesse di fronte alla piaga dell’Aids senza facili patetismi od inutili “prescrizioni”. L’amore buono ( Rizzoli 24/7, p. 222, € 14,50) è adesso anche un libro, un libro che dimostra come oggi i nostri più bravi uomini di teatro (Baliani appunto, Paolini e Celestini) svolgano veramente quella funzione di coscienza civile, che nel nostro paese ha avuto sempre la vita troppo, troppo dura.

“Una volta a Kawangware c’era una donna che vendeva marijuana. Si chiamava Ida” Kajohn parla sfoderando un gran sorriso, compiaciuto di attirare l’attenzione degli altri, “questa donna aveva fatto amicizia con un ragazzo che però era malato di Aids e glielo aveva trasmesso. Così anche Ida aveva preso l’Aids ed era stata molto male. Però non era così magra come di solito sono le persone malate di Aids. Il dottore non disse niente al marito perché la donna non voleva. Il marito dopo un po’ di tempo morì perché era stato contagiato anche lui. Lei ha continuato a vendere marijuana in un posto chiamato Congo, e lì gli uomini si picchiavano per fare l’amore con lei perché si vestiva sempre in modo provocante, lo faceva apposta. Molti miei amici sono stati contagiati e uno di questi, quando l’ha saputo, ha cercato di violentare sua sorella più piccola, forse pensava che così sarebbe guarito.”
“È vero” dice Michael, senza nemmeno alzare la mano a prendere la parola, “a Kogorocho, nel mio slum, gira voce che se uno si è preso l’Aids e violenta una ragazza vergine può guarire dalla malattia.”
(…)
“Anch’io ho una storia da raccontare” interviene Dexter alzando la mano e precedendo gli altri che chiedono la parola. “Una volta mio padre lavorava in casa di un ricco, uno così ricco che i figli studiavano in America. Nella stessa casa lavorava anche una ragazza come housegirl, era giovane e carina. Un giorno questa ragazza si sentì male e andò dal dottore che le disse che era malata di Aids. Così ha iniziato a vestirsi in modo appariscente, con le minigonne, ha cercato di provocarlo in tutti i modi il suo capo che alla fine ci è stato e si è preso l’Aids anche lui.”
“È così” dice Evans, “è come ha detto Dexter, oggi le ragazze sono rovinate perché fanno sesso in cambio di qualcosa, è sempre la ragazza che chiede di fare sesso, e che si veste in modo provocante, per far cadere l’uomo in trappola.”
Tutti ridono, dandosi gran manate sulle gambe.
“Le ragazze fanno a gara a quanti ragazzi si sono fatte” interviene Joseph, “i ragazzi invece vogliono solo divertirsi, e abboccano all’amo.”
“In Kenya le ragazze hanno sempre bisogno d soldi per comprarsi i vestiti, e non finiscono la scuola per andare a lavorare nei bar dove incontrano molti uomini” dice James con una mezza piroetta vicino al fuoco per fare il buffone, “lì imparano a fare sesso e poi contagiano i loro ragazzi.”
“Ci sono delle ragazzine che sembrano giovani e piccole” riprende Kajohn, “ma se le guardi bene vedi che sono già delle piccole donne ben fatte che vogliono fare sesso per avere qualcosa in cambio.”
“Per questo poi succede che anche gli uomini maturi si mettono a far l’amore con le piccole” aggiunge John K.
“L’uomo ha questo animale in mezzo alle gambe che è più forte di lui”. Tutti sghignazzano alla battuta di Evans, “e quando l’animale si sveglia non c’è niente da fare, vuole essere soddisfatto.” Altre risate a scroscio.
“E poi lo sanno tutti che la caramella è più buona senza la carta” dice ridendo Daniel, “per questo quando fai l’amore con una ragazza lei non tira mai fuori il condom.”
È da un’ora che li ascolto parlare, a ogni intervento mi sento crescere dentro una rabbia che ora sta per esplodere. Non ne posso più. Questi sarebbero i magnifici venti, scelti da me per giunta? Sono loro gli eredi del Pinocchio nero con cui dovrei mettere in piedi uno spettacolo sull’Aids e sull’uso del condom? Mi sembrano solo una manica di debosciati che pensano unicamente a come scoparsi più donne possibili, con questo lessico violento, con queste risate gongolanti, da maschi in fregola, mettendosi in bocca frasi fatte, le battute ascoltate al bar, i luoghi comuni che girano tra gli uomini dello slum. (…)
“È stato molto interessante ascoltare i vostri racconti” dico con una faccia che, a giudicare da come mi guardano sospettosi, deve rivelare tutt’altro, “ma credo che dovremo andare più a fondo, domani sera faremo un secondo giro, vi voglio domandare cose più precise”. Sto per alzarmi, mentre Douglas traduce il mio italiano in kiswahili, e dalle loro espressioni vedo che hanno colto benissimo il mio malumore. D’improvviso mi volto. “Vorrei però ancora sentire che ne pensa Nancy, che non è mai intervenuta.”
Nancy, per niente turbata dal mio invito, si alza lentamente e prende la parola: “Io penso che sono sempre i ragazzi che ci provano”. Si solleva un coro di rimostranze ma lei imperterrita va avanti: “Perché pensano che tutte le ragazze sono puttane. Ma sbagliano. E poi sono i ragazzi quelli che si vergognano di più a chiedere di usare il condom. Io se faccio l’amore uso sempre il condom perché voglio essere padrona del mio corpo”.
Si risiede, come una piccola regina. Nel silenzio più totale. Sono stupefatto, ha azzittito tutti senza vergogna di parlare in prima persona. Quasi tutti i maschi invece sono intervenuti riportando racconti o esperienze altrui, senza farsi mai coinvolgere.
Abbandono lo spiazzo insieme a Maria e allontanandomi li sento discutere animatamente con le voci che si sovrappongono senza più alcun ordine. (…)
“Mi pare un’impresa impossibile” dico a Maria che si è già infilata nel suo letto sotto la zanzariera, “altrochè battaglia per il condom, qui siamo all’anno zero.”
“Sei troppo negativo, non ti serve a niente questo atteggiamento, questa è la loro realtà, punto e basta.”
“E che ci faccio con questa realtà?”
“Non lo so, usala, devi partire da qui.”
“Ma hai sentito i loro discorsi sulle donne?”
“E che ti aspettavi, non te li ricordi i racconti dei pinocchietti?”
“Sì, ma questa volta il centro del lavoro non è il problema dell’identità, quello era tutto sommato più facile.”
“Sei tu che hai proposto ad Amref questo nuovo progetto.”
“Sì, lo so, però l’idea che avevo era un’altra, quella di uno spettacolo di controinformazione, da portare negli slum, dove i ragazzi potessero spiegare ad altri come loro l’uso del condom, i pericoli del contagio.”
“E non lo puoi fare lo stesso? Che cambia?”
“Ma dài, ragiona, cambia tutto, non lo usano manco loro il condom, c’è solo violenza nei loro discorsi, altrochè controinformazione.”
“Hai un atteggiamento troppo moralista, come se noi in Occidente avessimo risolto tutto, ma se ogni giorno sui giornali c’è qualche donna sgozzata dal marito o dall’amante, o costretta a subire percosse, dài, non mettiamoci a fare i primi della classe.”
“Però da noi almeno ci sono delle leggi, dei diritti.”
“Da quando? Da molto poco, e poi per un abuso denunciato ce ne sono cento che si ripetono come prima, a parte quei giudici che ancora pensano che lo stupro è sempre un po’ colpa della donna, perché provoca. Sì, abbiamo combattuto per i nostri diritti, ma siamo ancora indietro e non siamo certo noi a poter venire qui a fare i professori.”
“Comunque mi pare difficile, non so, mi sento frustrato e sono incazzato con loro.”
“Che li volevi, già belli pronti, informati, tutti perfetti? Be’, non è cosi, sono quello che sono, incattiviti, affamati di sesso, pieni di pregiudizi sulle donne e pure sul mondo, adesso tocca a te fargli cambiare idea.”
“Non so da che parte cominciare.”
“Ma sì che lo sai, l’hai sempre fatto, per prima cosa ascoltali, senza illusioni e senza aspettative, il resto viene da sé, buona notte.”
“Buona notte.”
“E poi l’hai sentita la ragazzina con quella frase sull’essere padrona del proprio corpo, mi son venuti i brividi, che t’ha fatto ricordare?”
“Le femministe degli anni Settanta.”
“Vedi che allora c’è speranza, a domani.”
“Buona notte.”
(…)
Ho ancora negli occhi gli occhi di quei ragazzi, quasi bambini, alla periferia di Gulu, nel nord dell’Uganda, al centro di accoglienza per gli ex ragazzi guerriglieri. Sono occhi che hanno visto troppo e sono diventati opachi, alieni. Fanno paura.
Forse è per questo che sono così a terra, senza difese, stanco di tutto questo mondo perduto, avvilito, umiliato fin nella carne, nei corpi, nelle cose più semplici. Mi sento come se fossi stato contagiato, tutti quegli occhi mi si sono appiccicati addosso e non se ne vanno più via. Forse dovrei provare a scriverne, allontanare quel viaggio mettendolo su carta. Rispetto all’orrore di un campo profughi sudanese, questi venti bravacci di strada di Nairobi mi sembrano dei privilegiati, e le discariche a cielo aperto dove vivono trafficano rubano e sniffano, posti meravigliosi.
Eppure anche qui l’orrore è di casa. L’Aids dilaga, come una peste. Trascina con sé nel baratro non solo i corpi, ma gli stessi sistemi sociali, svelandone la fragilità, travolgendone usi e costumi, regole e leggi. L’epidemia, uccidendo qualsiasi speranza nel futuro, rende il mondo un luogo incerto in cui vivere.
Mi torna alla mente una frase dell’Edipo di Seneca, quando l’indovino apre le viscere dell’agnello per leggere il futuro e vede che nessuna cosa è al suo posto, il fegato, il cuore e lo stomaco sono messi in posti sbagliati. È l’annuncio della peste che incombe su Tebe.
Mi sto per addormentare quando nella notte sento un urlio rauco e affannoso. “La senti, è una iena” sussurro a Maria con fare da esperto ma lei non risponde, sta già dormendo.

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