Redattore sociale 2006 e intervista a Pierre Haski

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La duplice natura del Redattore Sociale: come rivista, un importantissimo strumento di aggiornamento quotidiano per chiunque sia interessato ai temi del sociale e della solidarietà: il suo sito è www.redattoresociale.it, come appuntamento annuale, il primo e tuttora unico seminario nazionale di formazione per quei giornalisti che vogliano essere poco cinici e molto etici, e attenti al sociale, attraverso l’incontro con grandi personalità dell’impegno civile, della cultura e dell’informazione. Giunto alla tredicesima edizione, doverosamente dedicata ad Anna Politkovskaja, quest’anno ha preso come sottotitolo: “Sotto il tappeto: i giornalisti e il coraggio quotidiano” virtù che si accompagna a quelle delle due precedenti edizioni, l’ascolto (2004) e la meraviglia (2005). Noi giovani protogiornalisti usciti dalle scuderie Omero s.r.l non potevamo mancare a quest’importante occasione di confronto con quanto di meglio, anche se non di più visibile, offre il panorama giornalistico italiano – italiano e non solo, come vedremo. Data: 1-3 dicembre. Luogo: comunità di Capodarco, idilliaca ed efficientissima struttura per disabili (la vedete nella foto qui sopra, opera come le altre in questa pagina di un freelance conosciuto a Capodarco: Simone Ramella (visitate il suo sito). Da tener ben distinta dalla cooperativa su cui è infuriata pochi giorni fa la querelle dell’appalto unilaterale (per saperne di più non cercate qui, ma sulle pagine di cronaca dei quotidiani).

Apertura dei lavori da parte di Stefano Trasatti, capo del Redattore Sociale, che si scusa per la mancata venuta di Roberto Saviano (per questioni di questura), e da parte di don Vinicio Albanesi (foto qui sopra), il capo della comunità, con un bel discorso sull’improrogabile necessità che i disabili e disagiati diventino il soggetto delle politiche sociali e non più l’oggetto, materiale umano da sfruttamento da parte degli “addetti” e dei “periti” del terzo settore: precari intellettuali che non han mai visto un tossico o uno schizofrenico e che assorbono fondi solo per sfornare eleganti tabelline e formulette. A seguire le coraggiose testimonianze di Marisa Galli, disabile soccorritrice di disabili, e di Dorina Tadiello, suora comboniana che ha portato il suo aiuto in Uganda nel pieno di un’epidemia di ebola; moderava e musicava Marino Sinibaldi, la voce di Fahrenheit (Radio3 Rai). Soprassediamo velocissimamente sulla madornale sbronza che ci siamo presi la sera alla cena in comunità (e per cui siamo stati medievalmente puniti da padre Vinicio…­) e passiamo al secondo giorno, che ha previsto tre workshop paralleli, di cui abbiamo seguito quello su “indigeni e forestieri”, in cui hanno relazionato Massimo Ghirelli, Roberto Morrione ed Ahmad Ejaz, un simpaticissimo Hanif Kureishi all’italiana. Nel pomeriggio da segnalare la proiezione del film Oh uomo, di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, una vera e propria prova di coraggio richiesta agli spettatori in quanto il film consiste in due ore di filmati di mutilati gravi della prima guerra mondiale: la scena culminante ricorda l’inizio del Chien andalus di Bunuel, ma senza trucchi.
Alla fine della seconda giornata, veniamo trasportati con dei pullman a Sant’Elpidio a Mare. Il programma prevede una cena presso la Contrada S. Martino della “Contessa del secchio”, una osteria marchigiana ricavata in una vecchia cantina che profuma di muffa, con un menù a base di ciauscolo (o ciabuscolo), fagioli, pappardelle al cinghiale e vino cotto. Siamo al tavolo di alcuni giornalisti valdostani con cui condividiamo l’Hotel Victoria a Porto San Giorgio. Al tavolo si parla francese anche per la presenza di un ospite transalpino che è seduto proprio di fronte a noi e che scopriamo essere nientepopòdimenochè lo special guest del convegno del giorno seguente. Pierre Haski è il condirettore del quotidiano francese “Libération” e è stato a lungo corrispondente dalla Cina, dal 2000 al 2005, pubblicando molti libri di inchiesta tra cui, l’ultimo, Il sangue della Cina (Sperling&Kupfer). Haski è un francese simpatico e disponibile di origine tunisina (dice che la sua nazionalità è praticamente accidentale) con cui riusciamo a parlare in inglese di tutto: arte, donne, Zidane, cibo cinese, cultura francese, giornalismo, religione, ecc ecc.
Di tutta quella chiaccherata, nel trambusto del ristorante pieno di 200 giornalisti, abbiamo tratto un’intervista.

Non potevamo che iniziare a parlare della crisi del giornale “Libération” fondato nel 1973, tra gli altri, da Jean-Paul Sartre.

Nel giugno di quest’anno “Libération” ha affrontato una crisi finanziara dopo che il vecchio editore, un benefattore di sinistra, ha lasciato il giornale allo svizzero Edouard de Rothschild, il quale ha chiesto subito l’aumento della pubblicità sul giornale e il licenziamento di 80 giornalisti. Nonostante “Libération” abbia una tiratura giornaliera di 180.000 copie, il suo bilancio è in rosso, le vendite vanno male anche a causa dell’aumento dei quotidiani free-press e dei portali d’informazione su internet. Dopo queste richieste dell’editore, il direttore storico, uno dei fondatori, Serge July si è dimesso contestando il rilancio del giornale e al suo posto è venuto a novembre Laurent Joffrin dal “Le Nouvel Observateur”. Negli ultimi tempi “Libération” ha cambiato il suo taglio sia formale che politico: assomiglia più a un tabloid e se prima il suo corrispettivo italiano era “il Manifesto” ora è più vicino a “la Repubblica”, ma meno sensazionalistico. La prossima settimana [questa per chi legge] sarà decisiva per sapere il risultato tra braccio di ferro tra l’editore e il sindacato dei giornalisti sulla questione dei licenziamenti. Comunque in questi giorni abbiamo ricevuto molte manifestazioni di solidarietà dai lettori.

Parliamo della Cina. Il suo ultimo libro Il sangue della Cina è un inchiesta giornalistica di vecchio tipo su uno scandalo che ha coinvolto forse milioni di persone.

Sono venuto a conoscenza di questo caso dopo aver letto un documento confidenziale che diceva che le autorità sanitarie cinesi per tutti gli anni novanta avevano incitato la popolazione dello Henan, una provincia rurale, a donare il sangue sotto pagamento per commerciarlo. In quel documento si parlava del rischio di epatite e di diffusione del virus dell’HIV in seguito a queste donazioni. Sono andato nel 2001 nei villaggi della regione e a ogni persona che incontravo chiedevo se avesse donato il sangue e se avesse avuto problemi in seguito e tutti mi rispondevano che erano ammalati e che alcuni loro parenti erano morti. Chiamavano questa malattia “febbre”, nessuno aveva detto loro del contagio. In Cina l’aids è un argomento tabù e le autorità sanitarie avevano chiuso un distretto di 1/2 milione di abitanti in cui probabilmente c’erano centinaia di migliaia di infetti. Negli anni novanta c’era stato “un vento di follia” nel distretto: tutti donavano il sangue per 4/5 euro anche due volte al giorno in una regione dove il reddito pro capite si aggira intorno ai 50 euro l’anno. Per non indebolire troppo i donatori, prelevavano solo il plasma: centrifugavano il sangue tutto insieme e poi lo re-iniettavano. Bastava che una sola persona fosse infetta ed è probabile che in quelle centrifughe ci sia stata la contaminazione totale. Ho denunciato tutto questo su “Libération” e la notizia è stata ripresa dal “New York Times” e dalla BBC. In Cina c’è un sistema di controllo dell’informazione all’avanguardia: un controllo piramidale per il quale gli articoli più negativi sul paese vengono segnalati direttamente alla leadership. Eppure nel Partito Comunista Cinese c’è una lotta permanente tra clan e fazioni quindi fa comodo a un gruppo interno che alcune notizie negative filtrino. Quindi il caso è scoppiato anche in Cina e milioni di persone hanno finalmente scoperto di poter essere state infettate. Sono tornato dopo sei mesi nello Henan con il fotografo Bertrand Meunier, viaggiando di notte per evitare i blocchi dell’esercito, e la gente era talmente furiosa che voleva uccidere le autorità che ci avevano accompagnati. C’è stata una rivolta contro i poliziotti e gli agenti sanitari, poi una assistente pechinese ci ha salvati, ma siamo stati arrestati e espulsi dalla regione. Finalmente nel 2003 le autorità sanitarie si sono impegnate a aiutare la popolazione. Anche per la cura ci sono stati molti insabbiamenti e la terapia ufficiale non era efficace tanto che alcuni sono ricorsi ai ciarlatani della medicina tradizionale cinese. Una ong cinese mi ha proposto di scrivere sull’intera vicenda un libro, ma l’editore cinese quando ha scoperto che nel libro denunciavo la causa delle morti come aids, mi ha impedito di pubblicarlo.

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