Un genio. Un geniale inconcludente. Un omosessuale. Uno straordinario inventore. Un architetto, pittore, musico, cantore. Un dicitore di facezie. Un arguto. Un furbo, arrogante adulatore di potenti. Un eretico, naturalmente. Un cinico. Un alchimista, un mago. Uno scienziato. Figlio naturale di Caterina e di messer Piero notaro in Firenze, meglio conosciuto come Leonardo da Vinci. Apprendista del Verrocchio. Non apprendista stregone, no. Se stregone ha da essere lo sarà per conto suo, più tardi, quando squarterà i cadaveri per impararne la composizione, l’anatomia, l’esatta conformazione del cranio e dello scheletro, i fasci muscolari, la circolazione del sangue, la pelle, i tessuti, le ossa, la gabbia toracica, il cuore. Quando andrà ad assistere alle esecuzioni capitali per imprimersi negli occhi il ghigno degli impiccati, quando scorticherà gli uccelli per ricavarne osso dopo osso, piuma sopra piuma, e pesarne ogni elemento, ogni dettaglio, studiarne la aerodinamicità, l’attitudine naturale a librarsi sopra la terra e spostarsi a mezzo d’ali. Ali di cui vorrà dotare l’uomo, perché anch’egli voli, perché il volo – che ha sempre sognato di praticare – diventi una possibilità consentita: perciò quelle membrane di pipistrello che hanno cinque dita di legno ricoperte di taffetà inamidata; perciò quel continuo arrovellarsi, il continuo sperimentare lanciandosi dalla sommità di un colle, provando l’ebbrezza della sospensione, quel planare lieve e incostante, un po’ trascinato dal vento, un po’ sospinto dalla forza che le gambe riescono a imprimere alla struttura di legno e stoffa. Un volo al quale dedica la vita, quella passione definitiva che lo porta ad ammiccare ai potenti per averne in cambio uno stipendio e scampoli di tempo sufficienti a coltivare la stessa. E i potenti, Ludovico il Moro in testa, accettano, perché il Maestro non si propone come inventore bislacco, artista o pittore affermato, ma come Ingegnere Militare, in grado di realizzare mirabolanti macchine da assedio e da battaglia: barche d’assalto con prue corazzate, multicannoni, bombarde che lanciano sfere esplosive che in aria si frammentano e cadono a grappoli sui nemici, cannoni navali, escavatrici da trincea, ponti leggerissimi (fatti senza ferri né corde che quanto più si caricano tanto più si serrano), balestre a tiro rapido, carri falcianti… Eppure la guerra lo disgusta, e ne racconta il raccapriccio nella Battaglia di Anghiari, dipinta nel Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio, a Firenze, opera di cui s’è persa ogni traccia (almeno così pare), perché il pittore si ostinò, visti i lunghi suoi tempi di lavorazione, a usare una tempera grassa: colori a olio inadatti a fissarsi sull’intonaco, che muffiscono e si crepano e si disfano. “La guerra è follia bestialissima” scrive infatti. E allora, talvolta, se ne distoglie, occupandosi di macchine che invece di massacrare servono a rendere meno faticosa la vita degli uomini; così progetta cuscinetti per eliminare l’attrito, odometri che permettono di misurare le distanze, un aggeggio – formato da due ruote, un manubrio, una sella e due pedali – di cui oggi nessuno si stupisce, essendo la bicicletta divenuta un ordinario mezzo di trasporto, ma che allora pareva fosse appunto un giocattolo, di cui far dono al discepolo più caro, quel Salaì, il cui nome è l’unica parola scritta sul foglio che contiene il disegno. E poi il carro semovente (antecedente della moderna automobile), ruote dentate e catene per propagare il moto, il paracadute: “Se un uomo ha un padiglione di pannolino intasato, che sia 12 braccia per faccia e alto 12 potrà gittarsi da ogni grande altezza senza danno di sé”. Macchine, queste ultime, esposte nelle Sale del Bramante a Roma, realizzate secondo il progetto originale di Leonardo.
Un cartello all’ingresso della sala intima: “Non toccare”, ma nessuno dei visitatori (oggi perlopiù francesi) resiste all’impulso di far girare una manovella per verificare l’effetto delle sfere antifrizione, o del meccanico autobloccante, del martello a camme, o del “tirare composto”, in cui un pesante parallelepipedo è sospeso con corde a trentatré girelle (“Il forte attrito ne frena la caduta , che è addirittura arrestata dal contrappeso di una sola libbra”). E la sala si riempie di cigolii, rumori stridenti che si moltiplicano tra parete e parete, corrompendo gli altri visitatori e invogliandoli a toccare anch’essi ruote, pulegge e catene.
Ma è ancora al volo che l’interesse di Leonardo si ostina, e al volo fanno subito pensare le ali a forma di pipistrello sospese a un palmo dal soffitto: le cinque dita di legno, la copertura di taffetà inamidato, quell’essere pronte a planare giù per la montagna. Ma Leonardo non vuole un deltaplano (che pure sta lì, tra i suoi disegni), vuole l’aereo lui, vuole scoprire dove si trova l’energia necessaria per spingere la macchina oltre le pianure e le montagne, come generarla. Sono ancora lontani i tempi in cui James Watt scoprirà la forza del vapore, e lontani quelli del motore a scoppio. Leonardo è soltanto un “omo sanza lettere” snobbato dagli accademici suoi contemporanei perché non mastica quel tanto di latino necessario a esporre doviziosamente le sue scoperte, perché non possiede i rudimenti canonici della matematica (a scuola è sempre stato un ragazzo svogliato, distratto, incostante, perditempo), insomma, è uno di quegli artisti (artigiani?) da non prendere troppo sul serio, anzi, da cui stare proprio alla larga, perché è eretico perdipiù, uno stregone che frequenta i cimiteri e si diverte a sezionare i cadaveri ancora caldi, uno ch’è stato condannato al rogo per sodomia ed è scampato alla pena solo perché coinvolto nello stesso suo crimine un rampollo di nobilissima famiglia cui il rogo non poteva permettersi, un uomo di cui disfarsi senza rimorso (infatti morirà ad Amboise in Francia), dotato di quella ingombrante personalità che sarà dai posteri definita “genio”, e che insulta i mediocri suoi dissacratori nella misura in cui, costoro, non saranno mai in grado di eguagliarlo. Lui incassa e si dissolve. Si vendica però, e lo fa alla maniera irridente di sempre, nascondendosi dietro il sorriso di una gioconda che nei secoli non smetterà di inquietare.