“Un paese di neanche 7.000 abitanti, che ha sul suo territorio 18 opere di scultura, ha compiuto qualcosa che merita la definizione di importante”. A parlare è Umberto Bartoletti, che ha collaborato insieme al Comune e alla Pro Loco alla realizzazione del libro “Origgio. Scultura e territorio”, una panoramica completa delle sculture presenti in città. Lo incontro per parlare del progetto che dal 1998 ad oggi ha trasformato Origgio, piccolo centro in provincia di Varese, in un autentico museo all’aperto con la creazione di un percorso d’arte fra i luoghi e gli spazi urbani della città.
A dare il loro contributo si sono mobilitati tanti artisti contemporanei. Da Spagnulo a Fiume, da Nespolo a Mondino, per citarne alcuni. “Si è partiti con la Somala al vento di Fiume, artista di rilievo internazionale – dice Bartoletti. Ma numerosi sono anche gli artisti giovani, che spesso hanno materialmente lavorato con passione in fonderia settimane intere per realizzare l’opera donata”. Dalle sue parole si percepisce come Origgio abbia ragionato in grande, realizzando quello che da altre parti sembra impossibile, o semplicemente, non interessa: coniugare l’arredo urbano – strade, palazzi, parcheggi, centri commerciali – con la bellezza rappresentata dalle sculture. L’opera d’arte è stata calata nel tessuto cittadino, si è appropriata dello spazio, lo ha personalizzato, gli ha attribuito significato e lo ha reso unico.
Insieme a Bartoletti, incontro anche uno degli artisti, Marco Ambrogio Sozzi, che ha realizzato il monumento ai caduti. Da anni disegna, dipinge, scolpisce, preferendo una continua esplorazione delle varie tecniche dell’arte figurativa e ricercando costantemente un personale linguaggio di espressione. Gli chiedo di raccontare del suo modo di interpretare l’arte e di parlare delle opere donate alla città. “Parlare d’arte o di se stessi, per chi lavora con l’estetica, è un qualcosa che nel bene o nel male coincide – dice Sozzi. Ogni forma di vita, per se stessa contiene una forma d’arte perfetta. E’ l’arte che si ispira alla vita, la copia, la mima, la riflette, respira il suo stesso respiro, per catturarne l’attimo. Se ci emozioniamo davanti ad un lavoro artistico, perché è di emozioni che si deve parlare, vuol dire che un filo invisibile ci cinge e ad esso ci lega”. Marco è un fiume in piena, le parole escono irrefrenabili, accompagnate da una gestualità prorompente. “Un’opera è uno spazio da colmare – continua, una superficie da occupare con la propria fisicità, rimarcando, il farsi forma di un pensiero. Un’opera può avere solo inizio, non si conclude mai, resta sempre aperta, potrebbe essere senza fine, essere così unica da diventare lo sforzo stesso di tutta una vita”.
In sintonia con l’idea di arte costruita nella sua mente, Marco ha elaborato le due sculture, Il Tripode e Vulnerabile, che, affiancate l’una all’altra, fanno bella mostra nel cimitero. “Le sculture sono nate perché ad Origgio non esisteva un vero e proprio Monumento ai Caduti – ci spiega. All’interno del cimitero esisteva solo una parete, sulla quale erano affisse piccole lapidi ciascuna con il nome di un caduto, che doveva essere smantellata per lavori di ampliamento. Nella mia mente, immaginavo di utilizzare il materiale di quei bronzi cimiteriali dismessi, per farli rinascere in un solo pezzo, che fosse celebrativo e rievocativo insieme, eliminando la serialità che quegli arredi rappresentavano. Volevo che ne scaturisse la sensazione di un pezzo riemerso dalla memoria, come se fosse stato lì da sempre, quasi atemporale. Un misto di mito classico, cristiano e pagano, con le sue simbologie, reminescenze liberty o tardo umbertine. L’idea era di mettere in scena tutto questo repertorio e nobilitarne il vissuto, attraverso una sorta di nido sospeso su delle lance, un braciere che riecheggiava e ben aderiva ad un ideale patriottico: il connubio tra i due elementi, le lance con il loro aspetto mitico-guerresco e il nido erano un richiamo alla faticosa costruzione di un territorio ed alla sua difesa. Ma qualcosa doveva stridere nello sguardo: un’insidia serpeggia fra il fogliame, lunghi chiodi che, simili a spine, proteggono e insieme feriscono lo sguardo dello spettatore, generando un senso di difesa/offesa”.
Come Marco, anche gli altri artisti hanno deciso di imprimere nel bronzo parte di se stessi e del modo personale di interpretare eventi, fatti, emozioni, offrendo la propria scultura alla città. “Il progetto è andato avanti – riprende a raccontare Bartoletti – fino a quando è stato deciso che la gente del paese doveva saperne di più sulle sculture che incontrava andando a prendere il caffè al bar piuttosto che andando a fare la spesa. Insieme con altri due amici, abbiamo stabilito le linee guida per la realizzazione dei testi e delle foto, fino ad arrivare alla pubblicazione del libro. Il resto, i ringraziamenti, le parole ufficiali si trovano sul catalogo delle sculture, che ha avuto, questo giova dirlo, un grande apprezzamento dalle famiglie del paese; tutte ne hanno ricevuto una copia in regalo”.