La via dei Fori Imperiali è chiusa al traffico, carabinieri in assetto antisommossa aspettano appoggiati lungo i muri di via del Corso; e piazza Venezia sembra irreale, così variegata di bandiere e gruppi di manifestanti che hanno appena finito di protestare contro la Finanziaria e si concedono la pausa pranzo.
Sono centinaia: lombardi, partenopei, siciliani, sardi, marchigiani, abruzzesi, veneti, calabri (questi i dialetti che abbiamo riconosciuto) e si scambiano battute da una punta all’altra del marciapiede con l’allegria rumorosa di una scolaresca in gita. Hanno tutti lo stesso sacchetto di plastica bianca che contiene un panino con prosciutto e formaggio, una mela (o una banana), una merendina al cioccolato, una bottiglia d’acqua. Alcuni sono seduti per terra. Accanto alla statua di Nerva bivacca un gruppo di rom che mastica lo stesso pane dei manifestanti. Le bandiere sono arrotolate sui bordi della strada; i megafoni, invece di scandire slogan contro il governo, adesso servono a prendere in giro un amico o un parente, a imitare onorevoli in maniche di camicia che si sbracciano sudatissimi in una pantomima da campagna elettorale.
La giornata è bella, fa caldo. La via è ingombra di cartacce; i vigili urbani spingono lo sguardo oltre le balaustre semmai qualcuno sconfini nella zona archeologica, e ogni tanto soffiano perentori nel fischietto per richiamare all’ordine. Ma non ci sono disordini, la fine della manifestazione sembra l’inizio di una scampagnata. E anche noi ci lasciamo coinvolgere dal clima goliardico, da quelle risate a bocca piena, i denti che affondano nelle mele gialline – troppo anemiche – o nelle banane dalla buccia verdastra, mentre le voci raccontano della notte in treno, di quel collega malato che non è potuto venire a far casino con loro.
Camminando lentamente verso la metro di Colosseo, guardiamo ora i ragazzi, ora i padri dei ragazzi che controllano i figli semmai si perdano. E infatti raccomandano: “Il raduno è a Termini, ricordate: Ter-mi-ni”. E i ragazzi sbuffano, si allontanano, si abbracciano tra loro e ogni tanto baciano l’amichetta che sa di prosciutto, di mela o di cioccolato.
E’ allora che lo vediamo. Lui, sì, il ragazzo delle farfalle, quello che avevamo intravisto qualche settimana fa e col quale, per colpa della fretta, non avevamo potuto parlare. E’ seduto sul marciapiede, in uno slargo con poca gente, sembra che le cavallette e le farfalle di palma intrecciata non interessino nessuno. Si guarda intorno incuriosito dalla folla che mangia in apparente spensieratezza. Abbiamo con lui una storia in sospeso, che non possiamo assolutamente lasciarci scappare, perciò attraversiamo la strada quasi di corsa e in un attimo gli siamo davanti: stesso ragazzo dell’altra volta, stessa giostrina dalla quale pendono una cavalletta, una rana e due farfalle; il cartello col prezzo – 2 euro – è accanto ai fili di palma che aspettano di essere intrecciati. Anche lui sta mangiando, una sfoglia arrotolata da cui spunta la cimetta di una lattuga. Indichiamo la farfalla.
“Comprare?” chiede riponendo frettolosamente la sfoglia in tasca.
“Sì, e anche la cavalletta”.
Sorride, subito allegro. Stacca con cura il filo che tiene la farfalla legata alla giostrina, lo solleva perché la vediamo meglio (è bellissima), ce la porge. E’ costruita con foglie di palma fresche, umide, profumate di quell’aspro che conosciamo molto bene per averne avute le mani impregnate quando eravamo piccoli.
“E’ da tanto che stai in Italia?” chiediamo.
“Cinque” risponde e allarga la mano in un cinque che assomiglia a quello dei bambini quando chiedi loro l’età.
“Cinque anni?”.
Annuisce. Intanto prende un sacchetto di cellophane, vi soffia dentro a farne una specie di palloncino.
“Come ti chiami?”.
Risponde qualcosa d’incomprensibile.
“Come?”.
“Raja”.
“Come maharajà?”.
Abbassa la testa: “Significa Re”.
“Bello”.
Prende la farfalla e la infila dentro il palloncino.
“Ti trovi bene in Italia?”.
“Bene, sì”.
“E la gente le compra le tue farfalle?”.
“Sì”.
Accanto a noi si sono fermati due uomini, guardano la giostrina, dicono qualcosa in un pugliese stretto che proprio non capiamo.
“Chi ti ha insegnato a farle?” chiediamo ancora.
“Mio fratello… più piccolo” aggiunge subito, e sorride, come se l’imbarazzi il fatto di aver imparato qualcosa da un fratello più piccolo.
“E a lui chi l’ha insegnato?”.
Non lo sa. Intanto ha infilato la farfalla dentro il sacchetto e con un filo ha legato le estremità del bordo: sembra una bolla d’aria in cui è sospeso un insetto vero.
“Forse i vecchi?” chiediamo “I nonni?”.
“Sì… forse” risponde.
E immaginiamo vecchi curvi e pazienti che spiegano a un bambino come incrociare i fili, come arrotondare la punta per farne le ali, come arrotolare i cilindretti per ottenere gli occhi.
“Ma ci sono laghi nel tuo paese?” chiediamo “Fiumi?” pensando a quella sorta di nostalgia che gli abbiamo immaginato la volta scorsa vedendolo chino a intrecciare palme.
“Montagne in mio paese” e con la mano disegna la sagoma di lontane altezze “mio paese Kashmir…”.
E la parola Kashmìr, così come l’ha appena pronunziata, subito evoca il favoloso Kashmir di cui abbiamo tanto letto e intorno al quale abbiamo molto fantasticato. Pensiamo a Srinagar, la città felice della bellezza e della conoscenza, ai canali, le terre fertilissime, la morbidissima pashmina, le case sulle barche, il mondo favoloso che il conflitto tra Pakistan e India sta però seminando di morti.
“Bello il Kashmir” diciamo, e gli occhi gli si accendono “la guerra però…”.
Immediatamente si rabbuia: “No guerra” dice e subito si prepara a concludere l’incontro: prende un altro sacchetto di cellophane, fa il palloncino, infila la cavalletta, cerca in tasca l’euro di resto per i cinque che gli porgiamo.
Ma no, non può concludersi così, e torniamo di nuovo alle farfalle:
“A che servono?” buttiamo lì la prima frase che ci viene in mente.
“Portafortuna” risponde, ma si capisce che non ha più voglia di parlare.
Ed è a questo punto che s’intromette uno dei due pugliesi: “Portafortuna” dice all’amico strizzandogli l’occhio “hai capito? E quanti ce ne vogliono di questi per noi?”.
S’avvicina altra gente. La parola “portafortuna” pare abbia valenze magiche. Si ride, si guardano le cavallette, le rane sedute sulle zampe posteriori e la bocca spalancata.
“Funziona pure coi precari?” chiede una donna.
Il ragazzo si stringe nelle spalle: “Portafortuna” ripete, come a dire che la fortuna non va per settori e non opera per compartimenti stagni.
E la guerra? Ci chiediamo. Quante di queste farfalle e cavallette e rane e libellule ci vogliono per ridare pace a un paese che non ce l’ha?
Con i sacchetti in mano riprendiamo lentamente la strada per “Colosseo”. Due ragazzi in un angolo si fanno uno spinello, ogni tanto guardano ansiosi verso il gruppo dei padri che, finita la scampagnata, sta raccogliendo in silenzio striscioni e bandiere.