Credevo di aver trovato l’ufficio stampa migliore del mondo, quello del RomaEuropa Festival, nella persona di Chiara Celluprica efficientissima, disponibilissima, rapidissima, che in queste ultime settimane mi ha fornito gli accrediti più inn dell’offerta culturale della città, senza il solito corollario di pregiudizi verso un semplice e irrilevante web-giornalista, quale sono io. Credevo… ma per l’evento Turning (un concerto di Antony and the Johnson abbinato a una video installazione di Charles Atlas, all’Auditorium in prima mondiale), la Celluprica non ha potuto riservarmi neanche un bracciolo di poltrona. Così mi stavo quasi rassegnando a dover spendere tutte le trentacinque euro del biglietto, quando il bigliettaio del Parco della Musica, forse commosso dal mio catalogo di tessere, tesserine, tasse, abbonamenti, convenzioni che gli stavo sciorinando per strappare una insperata riduzione, mi offre una poltrona con scarsa visibilità a soli dieci euro. Che mi frega delle tredici bellezze gnuiorchesi promesse dal programma! Acconsento a vederle di sbieco, quello che mi interessa è l’ambigua voce di Antony. Il concerto è nella sala di mezzo dell’Auditorium, la Petrassi, quella più brutta che sembra essere stata costruita per il ventinovesimo congresso del Partito Comunista Unione Sovietica o per un comizio nazista. Perfetta per un gruppo che nel suo repertorio ha la provocatoria canzone “Hitler in my heart”. Il pubblico è quello solito delle grandi occasioni: tutti trentenni fighetti, precari dello spettacolo, aspiranti famosi, le donne con un fastidioso accento finto-milanese, gli uomini che si atteggiano da fintifroci.
Tutti quelli che alla fine dello show sanno dire solo: bello, bello, bello. In mezzo alla platea distinguo pure Baricco: il quadro è completo e cristallino. Sul palco ci sono tre archi, un piano, un basso, una chitarra, una batteria, un sax, un microfono e due telecamere. La performance prevede la “coinvolgente” interpretazione di Antony con sullo sfondo i volti di queste bellezze della grande mela modificati da Charles Atlas. La prima fila viene occupata dalle tredici quando si spengono le luci: sono tutte vestite con abiti costosi, tutte agghindate, tutte super-truccate, tutte diverse, tutte strafighe, (quasi) tutte trans-qualcosa. Infatti su tredici al massimo due saranno donne, anagraficamente parlando. La maggior parte hanno le tette siliconate, sono altissime, hanno il mascellone, i labbroni pieni di botulino, le gambe colossodirodi senza un pelo, sono anche brutte. Insomma sono modelle transex o transgender volgari, provocanti e seminude. A turno salgono sul palco e su una pedana girevole come tante ballerine da scatola per i trucchi. Intanto è cominciato il concerto e la voce di Antony lo fa da padrona. Antony ha la faccia da pupo, è ciccione, si sente una donnicciola del settecento, un Leporello arzillo. Si scatena sul posto senza grandi movimenti, mentre la sua ugola gorgheggia, il suo doppiomento vibra e ti fa venire la pelle d’oca. La sua voce è un mix di femminino e mascolino: il timbro scuro del tenore e l’agilità di un soprano. Gli effetti di Atlas, sui visi non trascendentali delle bellezze gnuiorchesi, ricordano le decorazioni anni ’70, poi la pop-art e infine sono un po’ kitsch con immagini di fiori in 3d. Il concerto finisce con l’esecuzione di “You are my sister and i love you” di Boy George (uno dei protettori e scopritori artistici di Antony insieme a Lou Reed). Le ragazze salgono sul palco con la band e si mettono in pose saffiche, intanto dietro c’è un il volto di un altro trans che ride ogni tanto dei motteti di un’allegra compagnia che provoca il pianto di commozione di alcune delle tredici. Al saluto finale, zompetta fuori Charles Atlas che sembra il figlio di Andy Warhol.
In confronto ad Antony, un ciocco di legno per forma e agilità, sembra un grillo con i capelli bianchi e la montatura degli occhiali nera e pesante.
In fin dei conti questo Turning è stato un enorme videoclip da teatro di lusso. Per i gruppi e gli artisti che snobbano MTV, c’è sempre qualche istituzione culturale pronta ad ospitarli. In queste serate non si assiste a nulla di innovativo che scuota un pò il pubblico e non lo prenda in giro facendogli credere di stare a assistere a qualcosa di raffinato. Mi sento un po’ stupido a eccitarmi di fronte a tredici brutti modelli di bellezza trans dalla capitale del mondo (come se fossero delle creature esotiche, rare e di un altro pianeta), come se fossi di fronte al video di una tv a sorbirmi la solita minestra. E vabbè. Visto che lo abbiamo evocato e che la responsabilità di questa serata, di questi nuovi modelli di bellezza e della fine che ha fatto la cultura di New York è sopratutto e sommamente sua, concludiamo con una citazione di Andy Wahrol. Una riflessione sulla sessualità: “Non solo fare del sesso, ma anche essere sessuati è una grande fatica. Mi chiedo se sia più faticoso 1) per un uomo essere un uomo, 2) per un uomo essere una donna, 3) per una donna essere una donna, o 4) per una donna essere un uomo. Devo dire che non ho la risposta, ma avendo osservato i diversi tipi, credo che la gente che fa più fatica sono gli uomini che vogliono essere donne”.