
Da “fotografa di moda” – grazie al lungo tirocinio accanto al marito – Diane diventò famosa abbracciando una “fotografia di non-moda”.
Il suo modo di fotografare personaggi ai margini della società (pur non essendo stata la prima: ricordiamo infatti la predilezione di Brassai, Weegee e Hine per i soggetti scabrosi) esaltava un mondo visibile, ma ignorato per pudore non soltanto dai benpensanti, ma addirittura dai cosiddetti artisti “contro”, come ad esempio gli artisti della Beat Generation.

Diane non si proponeva di scandalizzare né tanto meno di esporre al pubblico compatimento i propri protagonisti. Il suo obiettivo era quello di far conoscere l’esistenza di gente che non godeva di quei diritti abitualmente riconosciuti dalla società precostituita.

Diane metteva lo spettatore di fronte al fatto compiuto, mostrando i frutti di un mondo colpevole.

Gli attori da lei ripresi, fissavano spesso l’obbiettivo; ciò ne evidenziava maggiormente la loro stranezza, l’unicità e l’ inconsapevole infelicità.

I suoi mostri, come quelli del film “Freaks” di Tod Browning del 1932, nutrivano passioni e sentimenti identici a quelli provati dalle persone inserite nella società; essi partecipavano agli scatti della fotografa accentuando la propria goffaggine fino ad apparirne quasi fieri e facendo trasparire una reciproca solidarietà.

La prima mostra di Diane (New York Museum of modern Art, 1965), non fu un successo: le sue opere furono incomprese e disprezzate da quei benestanti che si vergognavano dei propri rifiuti sociali.

Per passare alla storia, Diane dovrà attendere il 1972 – un anno dopo il suo suicidio – quando fu organizzata una sua retrospettiva sempre nello stesso Museum of Modern Art di New York. Oggi la sua vita è stata ripresa nel film “FUR- Un ritratto immaginario di Diane Arbus”, diretto dal regista Steven Shainberg e interpretato da Nicole Kidman.

In esso è apprezzabile l’intenzione di raccontare le vicissitudini di un’artista alle prese con le contraddizioni di una vita conformista, il suo desiderio di scoprire il terribile “villaggio dei mostri”, a due passi da casa, a costo di sacrificare una carriera più sicura.

Credo che oggi, pur essendo stato detto quasi tutto sulla fotografia, bisognerebbe ripartire da questi grandi artisti per portare a termine un lavoro incompleto, quello di ritrarre con fierezza gli stati d’animo, le paure e la voglia di vivere della gente, tutta.

Per saperne di più: Susan Sontag, Sulla Fotografia, realtà e immagine nella nostra società, Einaudi Editore
