I can change the world, with my own two hands

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“Oh, I can change the world, with my own two hands”… È apparso sul palco del palalottomatica sputando in aria queste parole, Ben Harper, accompagnato e magistralmente supportato dagli Innocent Criminals

“Oh, I can change the world, with my own two hands”…


È apparso sul palco del palalottomatica sputando in aria queste parole, Ben Harper, accompagnato e magistralmente supportato dagli Innocent Criminals, venerdì 13 ottobre, conquistando immediatamente una folla di appassionati oscillanti tra l’età dello sviluppo e quella della meno/andropausa.

Puntando verso l’alto due mani aperte, spropositatamente grandi, ”…And I can make it a better place oh, with my own, with my own two hands…” è stato applaudito da milioni di mani altrettanto grandi, altrettanto forti, altrettanto trepidanti.

Il concerto della maturità, il riassunto ben curato di un lungo e colmo pezzo di vita, in cui non solo il suo nome si è fatto strada tra milioni di altri, ma insieme al suo, prima quello dei “Bind boys of Alhabama”, poi (e per la maggior parte del tempo) quello degli ”Innocent criminals”; il generoso Ben ci deve permettere di credere che la sua fortuna sia dovuta in parte anche ad un percussionista, Leon Mobley, dai bicipiti massicci e dai rasta multiforme, ad un bassista (e mezzo), Juan Nelson, che riesce ad improvvisare “I’ve got a woman” o “Swing love sweet Chariot” accattivandosi una platea di gente che nonostante ignori i grandi originari autori dei pezzi, è entusiasticamente rapita da quella voce fuori dal coro dal gusto un po’ “vintage”.

Momenti sacri, li definirei, quando tra un riadattamento di ”Burn one down” ed uno di ”Steal my kisses” esige esplicitamente silenzio, in quella che ormai è diventata la fiera dei deliri, per poter intonare privo di microfono e di accompagnamento una disperatissima ”Where could I go” lasciandoci in preda ad una crisi catartica dopo aver saggiato l’enfasi genuina, che trapelava dalle sue corde.

Attraverso dei filmati scoloriti che scorrono tra un brano e l’altro alle spalle della band, si odorava la soddisfazione e la realizzazione generale di chi, con un excursus, vuole far capire che dopo tanti inverni newyorchesi spesi a coprirsi per non tremare, è arrivato il tempo di montare i condizionatori in previsione di un’ estate certamente caldissima.

“Both sides of the gun” rappresenta dunque il saggio riepilogo di anni d’esperienza testimoniata da un repertorio vasto, scandito in due album dalle intenzioni separate: il primo dei quali apre con l’emblematica “Better Way”, pezzo con il quale il buon Ben termina la serata con i puntini di sospensione, incontrando il consenso di un pubblico che insieme a lui grida decine e decine di volte ”…I believe in a better way…”, è incoraggiato, esortato ”…Take your face out of your hands and clear your eyes, you have a right to your dreams and don’t be denied…” per poi vedersi comparire sullo schermo sotto forma di fiumana di colori, di braccia, di mani, di bocche spalancate, di vene gonfie sui colli, di rossori per lo sforzo e la convinzione con cui anche dopo la duecentesima volta ci si scopre a ripetere “’Cause i believe in better way!”

L’incipit, ”Morning yearning”, del secondo ed ultimo disco è invece qualcosa di leggero, di morbido, antitetico rispetto alla linea del primo, questo ne smorza i toni, ”…A finger’s touch upon my lips…” avvolgendo il tutto da una patina malinconica, ”…Anothr day, anothr chance to get it right, must I, still be learning, must I, still be learning…”

Grandi spazi ad isolati arpeggi classici, violini, in assenza di percussioni, venature elettriche, tra il folk e il country, tra il rock e lo swing che invece etichettano il precedente.

Rincuorati, sicuri e carichi ci inoltriamo verso l’uscita, convinti che al di fuori di quell’arena ”there will be a light” and “we believe in a better way”.

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