Roma. Piazza Venezia. Non più folla del solito. Nel bar di fronte all’Altare della Patria una comitiva di francesi brinda e canticchia. Sulle strisce pedonali si dipana un gruppo di tedeschi: la pelle bianchissima, le braccia nude, gli zigomi arrossati dal sole. C’è pure un centurione romano in gonnella rossa e pettorale di cuoio che fuma appoggiato allo stipite d’un portone e ogni tanto impreca a mezzabocca guardando l’orologio.
Camminiamo in fretta, abbiamo un appuntamento all’Eur alle 15.30, e alle 15.30 mancano appena quaranta minuti. L’intento – dopo l’incidente sulla linea A della metro – è quello di raggiungere il 780 e pregare che il traffico non sia congestionato. Perciò stiamo quasi correndo, e quindi lo cogliamo di sfuggita il ragazzo, anzi, prima di lui ci accorgiamo della giostrina che ha davanti, delle foglie di palma ben allineate in due righe accanto alle sue ginocchia, e solo alla fine degli insetti che – legati per un filo alla giostra – oscillano al soffio del poco vento che fa fredda questa giornata. Sono cavallette, libellule e farfalle; tutte dello stesso colore, tutte realizzate con foglie di palma intrecciata. Sono perfette: le zampe lunghe della cavalletta piegate in un angolo che fa presagire il salto, il corpo della libellula che sembra planare sull’acqua, le ali della farfalla aperte in un ventaglio tenuto insieme da un pezzetto di bambù. Cogliamo tutto questo con un solo, rapidissimo, colpo d’occhio: l’orologio che abbiamo in testa ci obbliga a non fermarci, a correre via, veloci verso l’autobus. E così andiamo, il passo sveltissimo, i tacchi che battono contro l’asfalto e la fretta di chi deve – a tutti i costi – arrivare in tempo.
Intanto che camminiamo, però, altri particolari afferrati in quell’attimo vengono a spiegarsi dentro la mente: il ragazzo è inginocchiato accanto alla giostrina, per terra c’è un cartello bianco con su scritto: “2 euro l’uno”. Erano così belli quegli insetti, pronti a volarsene oltre quest’aria intossicata dal piombo delle benzine che saturano la piazza. Li avremmo comprati tutti.
Guardiamo verso l’angolo in cui lo sappiamo accovacciato, quasi quasi torniamo indietro… e il passo rallenta, la testa si volge ancora a cercarlo. Ma no, bisogna essere all’Eur alle 15.30, ne-ces-sa-ria-men-te. E quindi acceleriamo di nuovo, consapevoli del fatto che il dovere è dovere e al dovere non si può derogare, e nello stesso tempo pieni di rammarico per quest’impossibilità di fermarci, di scambiare due chiacchiere con un ragazzo dalle mani magiche. Che non riusciamo a dimenticare, nossignore, neppure adesso che manca poco al capolinea e bisogna solo attraversare la strada e raggiungere il 780 che intravediamo: aveva la testa china, gli occhi fermi sulle dita che si muovevano veloci in un gioco di incastri, i capelli neri – d’un nero brillante bello a vedersi – e la frangetta sulla fronte, una camicia a righe marroni, o no, forse marroni erano i pantaloni; e non c’era nulla di sciatto in lui, aveva le unghie pulite e anche i capelli sembravano appena lavati. Nel ricordo la giostrina si muove, gli insetti ondeggiano. Ma sì, torniamo indietro… L’orologio segna però le 14.55 e sarà già un miracolo se, evitando l’azzardo di deviazioni fantasiose, riusciremo a raggiungere puntualmente l’Eur. Però… una libellula l’avremmo comprata, e l’avremmo appesa a una finestra, e ci saremmo incantati a contemplarne il dondolio nel vento. E l’acquisto sarebbe stato un pretesto per chiedere di lui, del ragazzo: da dove viene, chi è; ma, soprattutto, chi gli ha insegnato a intrecciare così meravigliosamente i fili che subito ci hanno fatto pensare alle croci della Domenica delle Palme, quelle che i nonni costruivano con le foglie benedette e poi appendevano al chiodino del capezzale dove restavano fino alla Pasqua successiva. Ma che ci vuole a fare una croce? Imparammo subito. Impossibile, invece, costruire quei cestini a forma di cornucopia che qualcuno vendeva nel loggiato della piazza. E adesso questo ragazzino qui fa addirittura le libellule e le cavallette e le farfalle che sembrano pronte a volare. Ma sì, ci fermiamo, torniamo da lui… E invece le gambe continuano a marciare decise verso il capolinea. Più avanziamo però, più ci pentiamo di non esserci decisi prima, quando eravamo ancora vicini: sarebbe stato un attimo, avremmo comprato qualcosa e gli avremmo chiesto di raccontare. Probabilmente non l’avrebbe fatto: troppo diffidenti i ragazzi stranieri, talmente abituati all’indifferenza altrui da ritrarsi spaventati quando qualcuno si mostra improvvisamente curioso. Ma gliel’avremmo chiesto ugualmente da dove viene, se è giunto su una di quelle carrette del mare che quest’estate hanno fatto stragi di bambini, se è arrivato di nascosto, chiuso in un camion, nel puzzo soffocante di vomito e altro, se ha viaggiato in mezzo alle capre ammassate in un carro bestiame, chi è sua madre, quanti fratelli ha. Ma, soprattutto: chi gli ha insegnato a costruire quelle piccole meraviglie?
Ecco, l’autobus è partito. Finalmente ci possiamo rilassare. Con gli occhi, però, continuiamo a scrutare la piazza, a cercare il punto preciso in cui il ragazzo è accoccolato. Ma la piazza formicola di gente e la lunga fila dei taxi in attesa fa da parapetto che impedisce la vista del marciapiede. Chissà se qualcuno li spenderà davvero due euro per comprare una di quelle cavallette… E il rammarico si fa amarezza, e poi sconforto e poi rabbia per questo dover correre sempre, il tempo scandito da appuntamenti che si susseguono, le giornate frammentate in porzioni da impiegare completamente, senza scarti, senza sbavature, senza la possibilità di concedersi una deviazione minima, l’inatteso di un incontro particolare.
Ma torneremo. Con calma e senza orari da rispettare; verremo a cercarlo questo straniero, anche solo per guardare le sue mani mentre si muovono veloci, mentre piegano, girano e rigirano la lunga foglia che si adatta a una figura precisa. E intanto che l’autobus percorre lento l’imbuto della strada, pensiamo che per riuscire a riprodurre la vibrante leggerezza di una libellula, bisogna avere tra le dita il ricordo di una visione, la memoria di grilli, libellule e cavallette che planano sul fiume di una qualche regione lontana, uno di quei luoghi incisi nel cuore di cui resta la nostalgia, che hanno odori e suoni e colori che uccidono quando non li si vede e non li si percepisce più. E allora, per non morire di nostalgia, ecco che la visione si fa oggetto, piccolo insetto che dondola in una giostrina di fili di palma, che racconta una storia che forse non conosceremo mai…