Ci sono cimiteri e cimiteri: diversi per destinazione, culto, classe sociale, ricchezza, monumentalità. C’è il cimitero dei poeti, quello dei letterati, quello degli inglesi caduti in guerra, quello ebraico, quello musulmano, il Gange che raccoglie le ceneri dei cremati, le fosse comuni, le foibe, la scuola di Beslan. Possono dirsi “cimiteri” le pance degli avvoltoi che in India divorano i cadaveri dei parsi esposti nelle Torri del silenzio? Negli abissi c’è il Titanic, l’Andrea Doria, le infinite legioni di navi, barche, galere colate a picco nei secoli col carico umano che avevano a bordo. E le carrette del mare, che non affondano, quelle no, ma si sgravano del peso che potrebbe comprometterne la stabilità buttando in acqua i disperati in cerca del paradiso… Di queste, però, forse non si può dire che appartengono alla categoria “cimitero”, visto che il più delle volte si disfano dei vivi mentre sono ancora vivi. Quello che invece, in-du-bi-ta-bil-men-te, rientra nella categoria in oggetto, è il Cimitero dei Cani di villa Piccolo. Sissignore, un cimitero come si deve, con tanto di tumuli (eliminato, almeno qui, l’obbrobrio dei loculi), lapidi, muri rossi di recinzione, cancelletto di ferro e ciuffi d’erba sempre verde. E poi il cinguettio dei passeri e quello stormire di fronde che accompagna e consola il riposo dei dormienti. Che forse dormienti non sono stati del tutto, visto che alcuni di loro – i più fedeli, i più amati dai baroni – erano soliti, di notte, aggirarsi per le stanze della villa, bere nelle ciotole d’acqua disposte appositamente per loro, rifocillarsi con qualche pezzetto (ben cucinato) di carne, e lasciare che Casimiro, il più grande dei fratelli Piccolo, ne fotografasse l’ectoplasma, quella loro nuova natura di spirito che tanto affascinava i baroni. Perché i baroni certo che ci credevano negli spiriti! Casimiro, addirittura, si metteva in ghingheri, la sera, per incontrare l’ombra della madre che si aggirava per le stanze insieme al fedele Alì, e lasciava che il figlio la immortalasse nelle foto che poi, esultante, mostrava agli altri, i quali, per compiacerlo, si sforzavano di ammettere che in quel nero senza sfilacce o sfumature di nebbia poteva intravedersi – ma sì! – il profilo della baronessa Teresa, che i figli, invece, riconoscevano senza ombra di dubbio, o quel tendersi del labbro nella solita riga di disappunto, quel certo atteggiarsi delle mani nei gesti imperiosi di quando ancora era fatta di carne. Perché lei era Maria Teresa Mastrogiovanni Tasca Filangeri di Cutò, principessa malmaritata al barone Giuseppe Piccolo, il quale, dopo averla ingravidata per ben tre volte, si eclissò con una ballerinetta smaccando così il suo orgoglio di nobildonna sicula che, per non dare sazio della sua vergogna, scappò da Palermo, si chiuse in quella dimora che era stata soltanto una residenza estiva, e vietò ai figli di maritarsi: ché mai, mai, avessero a subire lo stesso suo affronto per mano d’un mascalzone o d’una puttanella qualunque. E così fu. I tre non si maritarono (solo Lucio – ma questa è un’altra storia – riuscì a diventare padre) e riversarono l’amore grande che avevano in cuore sui cani; che divennero i veri padroni di quella villa in cui, ogni tanto, anche Giuseppe Tomasi di Lampedusa (figlio di una sorella di Teresa) veniva a ritemprarsi, e a leggere al cugino poeta – Lucio – pagine di quel Gattopardo che Vittorini avrebbe rifiutato per Mondatori ed Einaudi (“Troppo classico!”) e che diventò – edito da Feltrinelli poco dopo la sua morte – quel bestseller che continua a essere.
Ma stiamo divagando troppo. Torniamo ai cani: Gip, Mamoud, Flich, Surdittu, Pascià, Malatedda… che facevano la stessa vita dei signori loro padroni: mangiavano regolarmente la pasta quando, per via della guerra, la gente si nutriva solo di fave e carrube; e mangiavano pure la carne, attirando sui padroni gli insulti rabbiosi di quanti vedevano in quella generosa condivisione “una sputazzata in faccia a Gesù Cristo”. I baroni, però, tiravano avanti senza badare a nulla. Erano troppo impegnati in altro: Giovanna a far crescere nel giardino le sue piante tropicali, Casimiro a fotografare e dipingere gli ectoplasmi, Lucio a comporre poesie: ma non poesiole della domenica, di quelle che pigli foglio e matita, guardi il cielo, il sole, il mare che brilla e butti là due rime baciate da leggere ai fratelli per farti dire “Quanto sei bravo!”. Eh no, Lucio Piccolo era un Poeta per davvero. E pure grande. Sarà stato un bislacco, un sognatore, un tipo strambo che per assicurarsi la discendenza affittò l’utero di una contadina (che però si affezionò al figlio e fece causa ai baroni che volevano sottrarglielo per mandarlo a studiare in Svizzera) ma in quanto ai versi, eh, lì ci sapeva proprio fare. Tanto che si accorse di lui persino Montale, salutandolo al meeting di poesia di San Pellegrino Terme del 1954 come “un giovane poeta nuovo”. Un “giovane poeta” più che cinquantenne, a dire il vero, che incantò la platea con “la sua gentilezza, il suo tratto da gran signore, la sua mancanza assoluta di istrionismo, e l’eleganza un po’ demodèe dei suoi siciliani abiti scuri” (Giorgio Bassani, prefazione a Il Gattopardo, 1958). E di cui Montale conobbe le liriche solo per caso, anzi, solo per la sua proverbiale taccagneria, perché il barone Piccolo, completamente avulso dalle cose del mondo, gli mandò il plico contenente le nove liriche senza affrancarlo, e il buon ligure dovette sborsare ben 180 lire per averlo. E fu “per appurare se valesse 180 lire” che aprì la busta e tirò fuori quel libretto che il barone gli aveva inviato.
E i cani? Oh, quelli. Da vivi furono il migliore pubblico del poeta, il migliore spunto per il fotografo/pittore Casimiro, la migliore compagnia per Agata Giovanna quando preparava i sorbetti al gelsomino o quando zappettava in quel giardino che ebbe l’onore di far fiorire, per la prima volta in Europa e dopo undici anni di amorevoli cure, la Phuya Berteroniana, una pianta che cresce solo nelle Ande. Insomma, i cani furono amati con lo stesso amore che la gente comune riserva ai figli. E che si fa quando muore un figlio? Se ne piange la fine col cuore straziato. E poi? Ma lo si seppellisce. E poi? Si scrive su una lapide il suo nome perché rimanga memoria del luogo in cui giace la sua spoglia mortale. E poi? Lo si va a trovare ogni tanto, magari inginocchiandosi ai piedi del tumulo, lasciando un fiorellino nel vaso, invocandolo perché torni a farsi vedere, magari in sogno, o magari di notte, per i corridoi e le scale, le stanze buie in cui un lumino qua o uno là getta sui muri ombre vaghe. E poi? Poi a quel tumulo se ne aggiunge un altro e un altro, e ancora un altro, fino a che il campo in cui il primo di loro gioiosamente giocava – e in cui per primo è stato seppellito – non diventa quel Cimitero dei Cani di cui a Capo d’Orlando qualche vecchio ancora parla con rabbia scuotendo la testa.