A Roma all’Aventino c’è un cancello famoso. I turisti accostano l’occhio alla serratura, bisbigliano tra loro stupiti poi risalgono sulle vetture che li hanno portati fin lì conservando negli occhi per qualche istante l’immagine del cupolone così diverso, racchiuso nella serratura, da sembrare piuttosto il sogno di un visionario, il frutto della mente stordita dall’afa. Dietro quel cancello, oltre le mura, sorge una chiesa, Santa Maria del Priorato : ultima roccaforte dei Cavalieri di Malta. Per visitarla occorre un permesso. Ma per vederla basta alzare lo sguardo, svoltata la curva dopo il Nuovo Sacher e procedendo verso il ponte di Testaccio, e apparirà sull’alto del colle oltre il Tevere sospesa tra cipressi e cedri del Libano. Ho scoperto un giorno che il restauro della chiesa era opera del Piranesi: l’autore di una serie di incisioni Le Carceri che da sempre mi hanno affascinato. Cunicoli e sotterranei che si avvitano su stessi, come labirinti di pietra, intrappolando nelle loro spire figure di torturati e antichi eroi, di giudici e condannati. Le avevo scoperte a scuola leggendo Coleridge poi nel tempo le ho ritrovate nelle pagine di tanti: Baudelaire, Proust, Marguerite Yourcenar . Così ogni volta che attraversavo il ponte mi chiedevo quale segreta si nascondesse lassù all’ombra della bandiera con la croce ottagona del Sovrano Ordine di Malta.
Oggi abbiamo suonato al campanello e abbiamo detto che avevamo appuntamento. (Accompagno un’amica, storica dell’arte, che sta studiando le mappe dei luoghi di guerra tra cristiani e infedeli nel mediterraneo durante il cinquecento. “La storia che si ripete” mi dice con un sospiro lei che è cresciuta a Beirut ) Ha ottenuto il permesso di ingresso per un sabato mattina alle 10, a patto di accodarsi ad un gruppo in visita dal nord Italia. Abbiamo risalito le strade dell’Aventino a quest’ora ancora più deserte del solito.
Il custode ci viene incontro su un vialetto di ghiaia fiancheggiato da cipressi, è diffidente, ci fa molte domande, scuote la testa. È assolutamente vietato entrare senza il permesso. Ma noi il permesso lo abbiamo. Lui deve controllare parecchie carte e alla fine ci lascia passare. Ci prega di non separarci mai dal gruppo che è già lì sulla piazzola di ghiaia, davanti alla facciata, dove svettano solitarie sei palme. Sembra una scolaresca e i ragazzi ciondolano svogliati attorno ad un signore del Sovrano Militare Ordine di Malta che fa da guida. Alto, calvo, stringe in mano dei fogli umidicci. Ha un piccolo marsupio allacciato in vita con la croce di Malta e ai piedi scarpe da ginnastica dai colori accesi. Si scusa continuamente con un gran sorriso: “questo non è il mio ruolo, né la mia competenza, vi dirò le cose che so e che ho preparato, domande facili per cortesia.” E come può, con i limiti del suo ruolo e della sua competenza, spiega che si tratta di un’antica chiesa medievale rifatta nel settecento (1764) da Piranesi, quello delle Vedute. “Era un fantasioso il Piranesi e sulla facciata ha messo motivi di epoche diverse: le insegne dei Rezzonico che allora era la famiglia del Gran Priore, motivi militari ed etruschi e anche il serpente dell’Aventino.” Legge dai suoi fogli, poi alza gli occhi a cercare i motivi sulla facciata, non li trova, si confonde un istante finalmente vede i due serpenti che si avvitano su entrambi i lati dell’ingresso. “Eccoli i serpenti..” grida sollevato. “Ma l’aspetto più importante della facciata è il sarcofago” dice “Perché la chiesa in realtà è un mausoleo. Un omaggio funerario ai grandi uomini dell’ordine e alle loro gesta.” Indica i vessilli con le iniziali F.E.R.T “fortitudo eius Rhodum tenuit” legge, “Si riferiscono all’eroica difesa di Rodi contro gli infedeli” spiega raggiante quasi l’assedio si fosse concluso da poco. Aspetta che i ragazzi dicano qualcosa.
Il sole rovente filtra attraverso la cappa che grava sulla città e infiamma le teste dei ragazzi che lentamente si staccano dal gruppo e si appoggiano esangui esanimi alla balaustra che delimita la piazzola. Come un gruppo scultoreo. Sono troppo stanchi, il loro sguardo è troppo appannato per poter godere lo spettacolo da lassù, il lungotevere con san Michele (prima carcere minorile, spiega l’uomo calvo, poi orfanotrofio delle mantellate: le suore con il grande mantello) Troppo stanchi e annoiati per rispondere quando la guida chiede loro se sanno chi fossero gli infedeli. Quelli di un tempo e quelli di adesso.
Muovo qualche passo per scuotermi di dosso l’accidia contagiosa del gruppo. Un cancelletto apre su delle scale sbrecciate che portano ad un altro cancello più grande, sbarrato. La bandiera dell’Ordine di Malta sventola nell’aria fiacca. Attorno un’aria di abbandono. Di cavalieri in disfatta.
All’interno della chiesa la guida calva riprende la sua spiegazione. Su alcune cose procede incerto, ma su altre, legate alla storia dell’ordine, la sua parlantina si invola spedita. Sa poco o nulla di architettura, ma moltissimo di famiglie nobili, di titoli, stemmi e araldica.. Come custode della memoria si prodiga a mostrarci gli elogi funebri dei cavalieri incisi nel marmo.
“Il grande maestro è il corrispondente di un cardinale” dice con deferenza. Indica un trono di raso e porpora rossa a sinistra dell’altare e spiega compito che è lì che il Gran Maestro si siede durante la celebrazione della messa. Poi ci mostra la statua di Piranesi: indossa una tonaca e ha un’espressione diversa da quella che immaginavo.
“Il Piranesi era sepolto altrove” spiega l’uomo “in un’altra chiesa che ora non ricordo, ma per via delle insigni cose fatte per l’Ordine il Gran Maestro ha voluto che parte delle sue ceneri fossero trasferite qui. Non esistono altri ritratti del Piranesi vivente.” Conclude soddisfatto poi rimane per un istante in silenzio a contemplare la statua con riconoscenza.
Approfittando della sua distrazione, Carla mi dice che all’inizio sulla tomba del Piranesi c’era un candelabro di marmo piuttosto bizzarro che lui si era fatto proprio allo scopo. Ma poi, l’anno dopo la sua morte, la moglie e la famiglia hanno fatto levare il candelabro e hanno messo al suo posto questa statua solenne. All’epoca il restauro della chiesa era stato molto criticato. È stata la sua prima e unica opera di architettura. E le malelingue dicevano che era meglio che le sue fantasticherie e i suoi sogni li lasciasse per le incisioni e per le Vedute che vendeva ai turisti del Grand Tour .
Un paio di ragazzi sembrano essersi animati. Mentre gli altri continuano a sbaciucchiarsi e ad abbracciarsi languidi componendo gruppi scultorei tra i banchi della chiesa.
Un ragazzo grassoccio, che disdegna le effusioni, chiede informazioni sui vessilli che pendono sulle nostre teste. L’uomo calvo guarda in alto, il sorriso gli si smorza sulle labbra, si stringe il mento con una mano. “Di certo rappresentano i vari carismi dell’ordine, il nostro è un ordine militare e religioso e assistenziale, è l’unico che è sopravvissuto degli ordini armati di un tempo… Ci sono tante casate diverse…” Lo sguardo vaga sulle bandiere, ma non si raccapezza, non riesce a decifrare i disegni, e allora fa un gesto generico con il braccio e in fretta dice “..comunque si tratta di ossequio a malati, poveri e bisognosi.”
“Chi siede sui banchi a sinistra del trono?” chiede un ragazzo segaligno, occhialuto.
Il calvo tira un sospiro di sollievo. Può rispondere. “I militari del Sovrano Consiglio” esclama infervorato e si abbandona ai dettagli “I militari del Sovrano Consiglio siedono sui sedili a sinistra del trono del Gran Maestro. Per capirci” dice rivolgendosi all’insieme dei ragazzi avvinti sui banchi “…se paragoniamo il Gran Maestro al presidente della repubblica loro sono i suoi ministri.” Annuisce tra sé soddisfatto “I cavalieri dell’ordine indossano la cocolla” continua “se sulle diagonali della croce vedete dei gigli…” e il segaligno alza il braccio ad indicare i gigli su una bandiera “…allora dovete vedere quanti gigli ci sono e saprete i quarti di nobiltà del cavaliere.
Per entrare nell’ordine servono i quarti di nobiltà.”
“E senza quarti di nobiltà non si entra?” chiede deluso il ragazzo. Mentre un brusio passa tra i banchi “cocolla cocolla” e qualcuno sghignazza.
La guida si fa dimessa, umile “Eh già” mormora “ma se si vogliono prestare i propri servizi all’ordine e non si è nobili c’è sempre un modo per farlo…”
Intanto, già da tempo, i nostri occhi sono incollati all’altare. È un sarcofago con l’apoteosi di san Basilio di Cappadocia . Ma il sarcofago, nelle mani del Piranesi, è diventato una nave, un bellissimo vascello con sopra un grande globo. E quest’aria di morte e rovina sembra scossa per un istante da un refolo di vento. Che subito si spegne.
“Il simbolo della nave “dice il calvo “è un riferimento al ruolo dalla comunità italiana responsabile delle operazioni navali nel mediterraneo.” E intanto ci scorta in un girotondo attorno all’altare, che sul retro è totalmente liscio, “desiderio del Piranesi” dice soddisfatto la guida ai ragazzi che lo seguono come naufraghi dispersi o ammutinati.
Chissà che Coleridge non pensasse a quest’altare quando scriveva del suo albatros e della barca dei morti impantanata in acque senza vento.
Piranesi doveva averlo intuito che il suo restauro era l’inizio della fine. Che l’Ordine andava alla deriva con tutti i suoi sogni. Dopo pochi anni a Malta sarebbe arrivato Napoleone e poi gli inglesi e ai cavalieri militari non sarebbe rimasta altro che questa chiesa, di tanti mari solcati. Solo un vascello impantanato all’Aventino. Mentre facciamo il giro dell’altare, Carla estasiata sfiora con le mani il vascello “il sogno di un visionario” mormora, approfittando che la guida non possa vederla. Su un tavolinetto laterale giacciono abbandonati due libretti di cerimonia con testi in latino.
All’uscita imbocchiamo un vicolo stretto tra la chiesa e la villa attigua che non si può visitare perché è l’ambasciata del SMOM presso la Repubblica Italiana, ci dice la guida e spiega che l’Ordine è sovrano, batte moneta e rilascia passaporti. Entriamo nel giardino all’italiana. Tra i fiori e le aiuole è chino un giardiniere. Su un lato una gabbia con due cani. In una nicchia un pozzo templare. La guida, che si è accorto solo ora della nostra presenza, mi fissa sbalordito mi chiede commosso se appartengo per caso alla tale famiglia. Devo fargli ripetere la domanda due volte tanto l’emozione gli impasta la bocca. “mi scusi è identica alla Contessa…” Poi riprende la spiegazione: “quando il loro ordine è stato sciolto i templari hanno donato questo pozzo ai Cavalieri di Malta.”
“Beh donato…”non si trattiene Carla, “i templari sono stati massacrati e i loro beni dispersi tra gli altri ordini.”
La guida sorride si stringe nelle spalle. È arrivata l’ora di mostrarci la grande sorpresa: emozionato si incammina verso la Coffee House, una struttura che all’epoca impazzava in Europa e questo è uno dei pochissimi esempi rimasti. Un padiglione chiuso, una piccola costruzione rettangolare su un lato del giardino. Voluto dal cardinale Pamphili. “I cavalieri” ci spiega il calvo raggiante varcando la soglia “Si fermavano qui a conversare, a prendere accordi, c’erano salotti qui un tempo” È entusiasta della coffee house, la percorre con deferenza quasi potesse interrompere preziosi conversari. I ragazzi si aggirano tra le pareti chiuse interamente ricoperte di stemmi dei grandi maestri. Incerti sul da farsi. L’afa opprimente spegne anche il ricordo di passi lontani, è difficile immaginare questo posto vivo, animato da voci. C’è un’aria di salotto chiuso da tempo. Polvere e afa al posto delle strategie militari di un tempo.
Ma dalla coffe house si accede al viale di lauri con in fondo il cupolone che si vede dal buco della serratura. È bellissimo camminare sul viale coperto. Bellissimo. Ma la guida, forse per ripicca alla fama di quella vista, non gli dedica che pochi istanti e brevi parole: ecco il cupolone. E i ragazzi lanciano un’occhiata distratta e si allontanano con un sospiro, sollevati che la visita sia ormai prossima alla fine.
Noi continuiamo a camminare lungo il viale. Più si è vicini al cancello e quindi più lontani dal cupolone, più sembra di essergli scaraventati addosso, di poterlo afferrare, ghermire. L’illusione per un istante di essere da soli di fronte all’immensità della cupola. Più ci si avvicina alla fine del viale, alla terrazza sbrecciata abbandonata che guarda giù al Tevere, più il cupolone si perde sfocato in lontananza. È l’effetto cannocchiale della volta mi spiega Carla. Sembra un’altra delle visioni del Piranesi. L’oggetto di un sogno che quando finalmente crediamo di possederlo, inesorabilmente arretra.
Su e giù lungo il viale parliamo di antichi sogni che si ripetono, di antichi terrori che tornano.
Carla mi spiega che Malta è una delle isole più rappresentate nelle mappe che sta studiando. C’è l’isola e sopra tutti gli schieramenti degli eserciti. Soprattutto del famoso assedio del 1565. “Se i turchi, dopo tutte le loro vittorie, avessero preso Malta, sarebbe stata la fine dell’Europa.” Dice. “Ma allora era diverso” aggiunge scuotendo la testa. “Li chiamano infedeli ma all’epoca si consideravano combattimenti tra uguali” Le chiedo se davvero i Cavalieri di Malta fossero così valorosi. “Il Gran Priore dell’epoca, quello che ha dato il nome a La Valletta, era ossessionato. Martellava Filippo II, gli diceva che bisognava distruggerli i turchi.
Nell’Ordine di Malta finivano i cadetti delle famiglie nobili, gente che non aveva niente da perdere, gente senza speranza e molto feroce.
Poi come se sentisse il peso della decadenza che ci circonda dice: “Adesso restano gli ospedali.”
La guida sulla terrazza sbrecciata ci fa segno di avvicinarci al gruppo. Non gli rimane altro che profondersi in spiegazioni su ciò che si vede all’orizzonte nella mattina afosa e quando i due ragazzi più svegli gli chiedono informazioni specifiche lui dice “beh le chiese quando le ho davanti le so riconoscere, ma da quassù no mi confondo, tutte uguali con le loro cupole.” Restiamo per qualche istante in silenzio a guardare dal parapetto come marinai storditi sul ponte.
(Forse ha ragione la guida: nell’afa da quassù, da questa barca immobile incagliata all’Aventino, le case, le chiese, il mondo sembrano solo ammassi di pietra, prigioni di sogni.)
Alla fine il custode, emerso dal nulla, ci accompagna all’uscita. Gli chiedo se qui si dicano messe in latino, sorride fa cenno di no e si stringe nelle spalle, “È difficile che oggi a Roma qualcuno sappia dire la messa in latino e ancora più difficile che qualcuno la capisca” mi risponde con un sospiro scambiandomi per una del gruppo. Gli chiedo ragione di quei libretti in latino. “Beh sì quando si fanno le grandi cerimonie e sono solo famiglie nobili, allora loro il latino lo conoscono e vengono distribuiti i libretti, ma la messa si dice in italiano…E poi qui la messa si celebra solo in occasioni solenni, metta ad esempio che muoia il Grande Maestro e se muore il Grande Maestro è come se morisse un vescovo, quasi come se morisse un papa. Dio ci liberi. Allora sì …allora si celebra una grande messa. Altrimenti qui non c’è mai nessuno…”
Ci ritroviamo fuori nel sole. Nella piazza assolata due turisti sono chini a spiare dal buco della serratura poi fuggono via. Nessuno ha tempo di guardarsi attorno, di vedere la fantasia di rilievi del Piranesi sulle mura che cingono la piazza: lire, cammei, cornucopie, serpenti, ali d’uccello. Tatuaggi pietrificati di marinai cavalieri naufragati quassù.