Non mi ero mai accorta che gli occhi di Piero Angela sono blu

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Non mi ero mai accorta che gli occhi di Piero Angela sono blu. Un bel blu che si accende d’un vaghissimo brillio non appena viene formulata una domanda che egli ritiene interessante

Non mi ero mai accorta che gli occhi di Piero Angela sono blu. Un bel blu che si accende d’un vaghissimo brillio non appena viene formulata una domanda che egli ritiene interessante, e alla quale si premura di rispondere con un linguaggio talmente semplice che anche un bambino – o una qualunque persona non alfabetizzata – intenderebbe a meraviglia. Perché il suo segreto sta tutto qui, nel divulgare la scienza tenendo conto del fatto che non tutti possiedono le competenze per poterla comprendere nei suoi principii. E allora bisogna semplificare, ridurre i concetti – anche i più difficili – a elementi di facile comprensione, servirsi di esempi basati su fatti che tutti hanno modo di sperimentare, usare parole alla portata di chiunque (“Professore” gli scrisse una volta una signora “la devo ringraziare perché ho capito cose che non riuscivo a capire, il suo libro è scritto in modo piacevole e scurrile…”). Insomma, la scienza divulgata a chi di essa ignora i concetti generali e i dettagli.
Vale così anche per l’amore? Probabilmente, visto che il libro di cui il professore sta per parlarci ha come sottotitolo “La scienza dell’amore”.
Ma non era, l’amore, oggetto di sospirose meditazioni di poeti che guardavano alla luna e componevano versi per la Beatrice o la Silvia di turno? Non è, l’amore, moto dell’animo che prescinde dal pensiero e s’imbizza, disarciona la mente per galoppare verso le ignote praterie dei sensi? Non è il frutto di un’incostanza, di una reticenza, di un mistero tanto più misterioso quanto meno scandagliabile, sezionabile, esplorabile con la candela di Demostene o il lume di Voltaire?

“Ti amerò per sempre”, è il titolo del libro di cui Piero Angela è autore, ma è anche la frase che tutti vorremmo sentirci dire, quella che ci ha fa tremare quando la sentiamo pronunciare davvero, perché sappiamo che spesso sottende una bugia, o la sottovalutazione di quello che – spenta la fiamma dell’innamoramento – irromperà nei nostri giorni (o in quelli del nostro compagno) facendoci tornare sui nostri (sui suoi) passi e meravigliarci d’aver potuto, un giorno, esserci impegnati per l’eternità.
Ci sono alcune persone che quando lo dicono – “Ti amerò per sempre” – lo pensano veramente, altre che lo dicono ma non lo pensano, altre ancora che lo pensano ma non lo dicono (peccato!), e altre – ma sono poche – che non lo dicono e neppure lo pensano. Eppure è questa la frase che esprime l’idea di voler cominciare una relazione stabile, di voler elaborare un progetto a lunga scadenza, che non si esaurisce con lo svaporare dell’innamoramento e prelude alla fase successiva, quella dell’attaccamento, che comincia quando lo stato di “malattia” si è esaurito.
Stato di malattia? Certo, spiega il professore, l’innamoramento può davvero essere considerato uno stato “patologico”: bello, vitale, un periodo in cui “la persona amata viene idealizzata, non ha difetti, e, se ne ha, vengono oscurati da una specie di daltonismo emotivo”, ma che comporta, nell’individuo che ne è colpito, un abbassamento del livello di serotonina, così come avviene, per esempio, nei soggetti affetti da disturbi ossessivo-compulsivi. E in fondo, cos’è l’innamoramento se non una forma di ossessione? Pensare sempre all’altro, convincersi di non poter vivere senza l’altro, di non avere senso se l’altro non sta con noi. Insomma, quando siamo innamorati nel nostro organismo succede più o meno questo: si abbassa il livello di serotonina (di circa il quaranta per cento rispetto ai valori normali) e s’innalza, invece, quello della dopamina, un altro neurotrasmettitore che, ad alti livelli, provoca energia, iperattività, perdita del sonno e dell’appetito, e anche batticuore e tremori; quegli stessi sintomi che scatenano nell’innamorato la tempesta emotiva che lo porterà a fare qualunque cosa pur di non perdere la persona amata.

Intorno a me qualcuno sorride, qualcuno guarda per terra come a seguire una fila di invisibili formiche – siamo nel giardino della biblioteca Pallotta di Fregene –, qualcuno fissa il professore come a carpirgli il segreto che dovrebbe risolvere la situazione scottante in cui si trova a vivere giusto in questi giorni. Ma il professore ha ormai esaurito il discorso sull’innamoramento ed è passato a illustrare la fase successiva, quella dell’attaccamento. Che comincia quando la tempesta emotiva si è ormai placata e si può veleggiare tranquillamente verso la dimensione dell’amore, che implica un patto di stabilità e convivenza, la generazione della prole e la cura di essa, la capacità di provvedere ai bisogni del partner e dei figli. Insomma, l’instaurazione della famiglia. Certo, i tempi sono cambiati, e di conseguenza sono cambiati anche i ruoli nella coppia, per cui, adesso, passare a una stabile vita di famiglia è più complicato che in passato. Allora bastava che il maschio desse un pugno sul tavolo per zittire tutti e ristabilire le priorità – perché lui era il più forte, portava i soldi a casa, era più istruito della moglie (sempre, o quasi, analfabeta), provvedeva alla sicurezza della famiglia. Oggi, se il maschio dà un pugno sul tavolo, nessuno ci fa caso: non è più il padrone. La donna si è emancipata, è capace di reddito, è istruita e, in genere, più brava di lui (perché più scrupolosa, più attenta ai dettagli, più paziente nell’attendere certi risultati, nell’occuparsi di certe faccende). E questo – ma sono considerazioni soltanto mie – perché ha avuto modo di allenare doti legate all’indole, che si sono iscritte nel DNA e si sono trasmesse dalle ignoranti madri-schiave alle istruite figlie-signore-della-propria-vita, dando a queste ultime una marcia in più. Ecco, di ciò mi piacerebbe parlare col professore, ma il discorso è già andato avanti agganciandosi velocemente a un altro argomento di non minore interesse: la fedeltà.
Lo sapevate che durante la fase dell’attaccamento c’è una maggiore produzione, sia nell’uomo che nella donna, di ossitocina? L’ossitocina è quell’ormone che le donne conoscono molto bene – l’esperienza dolorosamente docet – per essere loro somministrato in fase di travaglio o dopo il parto, per agevolare le contrazioni uterine, e che viene prodotto anche durante la fase dell’allattamento provocando quel legame molto forte tra la madre e il suo piccolo. Ma non solo. E’ un ormone che viene rilasciato, sia nell’uomo che nella donna, anche in altri momenti, per esempio durante la fase dell’orgasmo. Ed è esso che fa da “cemento” della coppia, aumentandone il grado di fedeltà. Non ci credete? E’ stato provato scientificamente. Dunque. Ci sono dei topolini di campagna rigorosissimamente monogami (si incontrano, si annusano, si “frequentano” per ventiquattr’ore, quindi si accoppiano e da quel momento resteranno insieme per tutta la vita). Ci sono dei loro cugini che invece sono molto diversi, diciamo molto “farfallini”. Ad alcuni di costoro è stata somministrata ossitocina col risultato drastico di ridurre la tendenza all’avventura degli individui trattati.
Uno dei presenti – tra le risate – chiede se simili esperimenti sono stati fatti anche sull’uomo. Il professore risponde che no, non sono consentiti, e che comunque sarebbe molto triste che una moglie, per assicurarsi la fedeltà del marito, gli sciogliesse ogni mattina nel latte una pillola di ossitocina.
Già, sarebbe triste. Perché è vero che nell’amore entrano in gioco fattori biologici (dopamina alta, serotonina bassa, ossitocina alta, zone del cervello più irrorate di altre per evidenziare “circuiti” mentali che si accendono o si spengono quando divampa l’incendio), ma è anche vero che c’è una parte emotiva che sfugge a ogni criterio d’indagine, a ogni possibilità di essere misurata, testata, analizzata. Ed è quella che prescinde dalle esigenze di perpetuazione della specie e fa sospirare guardando alla luna, fa scoccare la scintilla che provocherà l’incendio, fa brillare gli occhi quando si parla di lei: che può essere, sì, la donna bellissima che si è sempre sognata (seno, vita, fianchi perfettamente proporzionati in quella “anforetta” che fa impazzire gli uomini), oppure, e di questo ne siamo certi, quella certa ragazza di cui canta Vecchioni, quel “mestiere” a cui ci si consacra per tutta la vita e che fa accendere d’un vaghissimo brillio gli straordinari occhi blu di Piero Angela.

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