Qualche sera fa ho fatto tardi per andare a sentire le prove aperte dell’Orchestra di Piazza Vittorio. L’evento era stato organizzato in occasione dell’uscita del secondo album dell’orchestra multietnica romana, dal titolo Sona, nella suggestiva sala prove, un ex-garage, nell’associazione Apollo 11 in via Conte Verde 51. La sala straripava e, ricordo, delle lampadine calavano, con un azzeccato effetto scenico, dall’alto. Poi ho bevuto del pessimo vino e mi ha fatto male la pancia e non ricordo più nulla. Queste serate non sono prive di ripercussioni: è tempo di corsi universitari e la frequenza è messa a serio rischio. Eppure la mattina, dopo quella serata, ci sono andato all’università, mosso dal fato delle coincidenze: alla lezione del professor Gnisci era ospite lo scrittore africano algerino Amara Lakhous per presentare il suo libro Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, edizioni e/o, dodici euro per centonovantatre pagine. Questa intervista è frutto del dialogo avvenuto in aula quella mattina con gli studenti.
Il suo libro ha una storia particolare: scritto prima in arabo e pubblicato in Algeria è stato tradotto in italiano.
Dico subito che il progetto creativo che porta alla scrittura di un libro è lungo e faticoso. Il libro l’ho scritto prima in arabo con il titolo “Come farsi allattare dalla lupa senza farsi mordere”. Ho speso 10 milioni per farlo pubblicare in Algeria tra mille difficoltà. Nel mio paese sono considerato, per questo, uno scrittore immigrato, ma a me non infastidisce questa etichetta del transfuga. Penso, più che altro, che il mio continuare a scrivere faccia parte di un “esilio intelligente”.
Perché poi ha tradotto il libro in italiano?
Avevo diverse strade da percorrere. Potevo scrivere il libro in francese, ma ciò significava rimanere colonizzati. Lo scoglio della lingua è enorme. L’unico modo per superarlo è quello di problematizzarlo aggiungendo nuove lingue come, in questo caso, l’italiano. Quando ho tradotto il libro mi sono sforzato di non usare il vocabolario anche nei punti in cui avevo più difficoltà. Credo infatti che si possa parlare di riscrittura. In alcuni casi il testo è stato italianizzato ex-novo, come per esempio le espressioni dialettali. In altri sono nate delle espressioni ibride a metà tra arabo e italiano che sono più efficaci del testo originale.
Il libro parla dell’incontro-scontro etnico e culturale che vive Roma. E lo scenario in cui si svolge la storia è il simbolo della multiculturalità della città: Piazza Vittorio. Per descrivere questo mondo si è basato sulla sua esperienza personale?
Si ho vissuto per sei anni a Piazza Vittorio e due anni in un centro di accoglienza. Ho lasciato l’Algeria il primo ottobre del 1995. Quel giorno è ancora vivido nella mia memoria. Lo ricordo come un funerale con tutti i miei parenti che avevano raggiunto Algeri per venirmi a salutare. Ricordo che il tragitto da casa all’aeroporto in compagnia di mio fratello mi era sembrato il viaggio verso il cimitero. Venire in Italia è stato come andare in esilio. E spiego il perché: nella mia cultura, sono di nascita berbero, quando qualcuno commette un omicidio viene allontanato dal suo clan per evitare faide tra le famiglie. L’esiliato ritorna, per così dire, nella società degli uomini, quando con un matrimonio entra a far parte di un clan, un gruppo famigliare, diverso dal suo originario. Nel mio caso al dolore per aver lasciato il mio paese si univa anche questo senso di colpa dell’esiliato. Quindi, qualche tempo fa, sono ritornato in Algeria per ristabilire un senso di giustizia perché non avevo ucciso nessuno.
Possiamo dire che il “fuoco”, il punto centrale, intorno al quale ruota la vicenda raccontata nel suo libro sia l’ascensore di un palazzo di Piazza Vittorio. Ascensore che non solo è teatro del delitto che bisogna sciogliere, ma è anche e soprattutto pretesto per i personaggi per sfogare le proprie frustrazioni razzistiche. Si tratta, in piccolo, di uno scontro di civiltà.
Ho voluto trattare questo argomento mosso dalla convinzione che sia meglio lo scontro che l’indifferenza. Insomma lo scontro può trasformarsi in incontro. Può diventare un “malinteso costruttivo”. L’indifferenza non può tradursi in nulla perché è il vero contrario dell’amore. Penso che il mestiere dello scrittore verta proprio su questo ascolto di tutti, di tutte le voci che sono in contrasto. Uno scrittore si deve sempre mettere in discussione per capire l’altro. L’importante è la comprensione dell’altro, perché dentro ognuno di noi vivono voci in totale dissenso tra loro. La metafora della scrittura come migrazione è efficace anche i noi stessi. La letteratura, inoltre, ha questo forte potere di mondanizzazione possibile del senso di mondo. Il mio lavoro di giornalista d’agenzia mi ha aiutato in questo. Non perdere mai il contatto con la realtà. Cosa significa questo? Raccontare, anche attraverso la finzione, il nostro mondo gli dà significato, ci aiuta a comprenderlo e a migliorarlo. Questo mi ricorda quando il primo ministro francese, parlando di immigrazione, disse che la Francia non poteva accogliere la miseria del mondo e Pierre Bourdieu scrisse La misere du monde in risposta.
Parliamo dello scontro di civiltà in grande. I media occidentali ci hanno abituato a parlare di questo scontro islam-occidente. Nelle parole dei politici questi sono argomenti sempre più ricorrenti. Ma esiste uno scontro di civiltà? E qual è la sua opinione sull’integrazione?
Su quest’ultimo argomento non ho nessuna ricetta. Mi posso basare solo sulla mia esperienza. Per quanto riguarda il problema dello scontro di civiltà io vorrei tagliare il problema alla base. Penso che sia ingiustificata una paura della minaccia islamica per un semplice motivo: l’islam si estende a grandissima velocità perché non entra in conflitto con le società con cui entra in contatto. Ha una capacità di adattamento molto sviluppata. È per questo che non si può parlare di un unico islam, perché esistono tanti islam diversissimi tra loro.
Il suo romanzo è stato definito “un pastiche etnico”. I rimandi e il dialogo con Quer pasticciaccio brutto de via Merulana non è nascosto, ma manifestato costantemente nel suo libro. Inoltre lo stile ironico è stato definito subito da commedia italiana. Che cosa l’ha influenzata del romanzo di Gadda?
Quello che ho seguito è stato semplicemente il modello gaddiano per riprodurre i dialetti. Ho chiesto, come Gadda, delle consulenze sul modo di parlare dei romani, dei milanesi e dei napoletani, ma anche degli iraniani e dei bengalesi.