Pensando all’utilità e alle finalità delle scuole di scrittura creativa, e dei loro eventuali effetti collaterali, mi viene in mente il vecchio detto cinese a proposito della luna e del dito, per il quale è consigliabile guardare la luna e non il dito…Per esprimere quello che intendo dire però ho bisogno di capovolgere i due termini, luna e dito, e utilizzare un paradosso, una capriola del senso comune: i laboratori di scrittura dovrebbero secondo me idealmente far la parte del dito e funzionare da puntatori scelti per mettere chi ne ha l’inclinazione, l’ispirazione, talvolta il talento, e la disponibilità a traspirare ( il fatidico 10% di ispirazione e il 90% di traspirazione) in grado di dare ai lettori niente di meno che la luna. Una luna piena, o una luna velata, un quarto di luna, una bellissima falce o una suggestiva eclisse. In altre parole se le scuole di scrittura si aspettano che dalla penna degli aspiranti scrittori esca la Luna devono assumere la loro parte: quella del dito.
Partendo dalla mia personale esperienza, iniziata spontaneamente con la lettura bulimica di libri, comunque e dovunque, libri usati per vivere non tanto diversamente da come un vampiro ha bisogno di affondare i denti nel collo pulsante di vita di una creatura viva, e poi passata per caso o per fortuna a svolgere una qualsiasi attività redazionale, e infine approdata dopo scritture di lettere, racconti al proprio cane, articoli, auguri di Natale, liste della spesa, note e promemoria, comunicazioni all’amministratore del condominio, a una attività che è quasi identica a quella di partenza e cioè il ruolo di lettore di casa editrice e poi di editor, direi che c’è una specie di buco nero. Ovvero tra la scuola e il desiderio di esprimersi su una pagina per comporre un racconto, per costruire un romanzo, perché non esiste nulla se non un atto di fede nel proprio eventuale talento, l’aver letto libri o visto magari in Tv degli scrittori di successo. Le ragioni per scrivere possono essere mille e tutte legittime e degne ma il fatto è che intorno a questo strano totem che è il libro, lo scrittore, il best-seller si accumula una diffusa e accesa aspettativa, una speranza illimitata, il desiderio inconsulto di provarci, la convinzione che basta vivere qualcosa intensamente, aver visto o immaginato qualcosa di insolito o significativo, per trasferirlo sulla pagina e il gioco è fatto.
Il lavoro di scandaglio e la ricerca di nuovi scrittori svolto da un editore è uno dei ruoli fondamentali e direi la missione delle piccole e medie case editrici, in certo modo la loro ragione sociale. In questo lavoro quando si tratta di metter mano alla interminabile pila di manoscritti in proposta per cercare di individuare tra le montagne di carta il romanzo d’esordio o il romanzo tout court, ci si imbatte il più delle volte in scritture che sono spesso il frutto di un mancato lavoro di analisi, o l’effetto collaterale di un divorzio, o di un qualsiasi smacco esistenziale, sportivo, sociale e affettivo, o altro , che , intendiamoci va benissimo. Ma spesso capita di misurarsi con un magma che presenta caratteristiche sul versante clinico della scrittura. Ovvero scritture sismiche, o sincopate, inconsulte e inarticolate, criptiche e schizoidi, sgrammaticate o erratiche,….esiste anche un versante strategico, un po’ vanamente strategico: ci s’imbatte in scritture che attorno a una frase o un singolo evento o situazione che appare, o deve essere apparsa all’aspirante autore, insolita, originale, d’effetto, si intesse una mastodontica struttura che riesce a coprire anche 500 pagine che è di pura e semplice espansione della stessa frase, evento, situazione mediante la sistematica ripetizione, variazione dell’ordine di entrata, metodico cambio di due- tre aggettivi ( sempre quelli: straordinario, travolgente, incredibile, tutti superlativi); pochi lettori riescono eroicamente a coprire tutta la desolante distesa di pagine cosi fatte. Ma se non lo facessero, sbaglierebbero. Perché per un singolare paradosso accade che talvolta, molto raramente, con le stesse caratteristiche o sembianze appena meno scoraggianti e poco allettanti ci s’imbatte in qualcosa che pur presentandosi sismico, sincopato, inarticolato, inconsulto, criptico erratico, sgrammaticato e magari anche prolisso o goffo, miracolosamente contiene un nucleo dinamico autenticamente narrativo: un racconto. Un racconto zoppicante e incerto, fumoso e goffo, che a volte invece di imboccare un bel viale alberato sbatte contro un muro o in un grande cartello pubblicitario, altre volte comincia a girare in uno spiazzo deserto e non riesce a trovare la via d’uscita, inciampa regolarmente nello stesso insignificante passante scambiandolo per un personaggio interessante e quando se ne accorge non sa più cosa farne e alla fine lo abbandona in una stanza o a una fermata d’autobus. Trascorre una intera mattinata a non fare assolutamente niente costringendo il lettore a fargli compagnia mentre crede di intrattenerlo con considerazioni del tipo: una volta ero nel tal posto ma non mi ricordo bene cosa stavo facendo e neppure perché, chissà perché mi viene in mente ora….o cose del genere. Pagine da cestinare, ovviamente.Ma stranamente con tutti i suoi difetti è un racconto che leggi dall’inizio alla fine e che nel suo modo bislacco e insufficiente ti trasmette qualcosa, un piccolo mondo o una porzione di mondo con delle persone che prima non conoscevi o non avevi notato, un clima, un disagio, pensieri, gesti sorprendenti che ti schiudono le porte a una visione della realtà, a una sua dimensione inedita, rivelatrice.
Poi c’è il caso del manoscritto che per usare un’immagine è una sorta di blocco di marmo o di ghiaccio: al tenace lettore capita di dirsi: magari dentro il blocco potrebbe nascondersi la Nike di Samotracia o il Mosè, andiamo avanti. Ma la verità è che in quel caso non serve né un lettore scrupoloso, né un editor geniale: ci vuole un cane da valanga o un dispositivo satellitare che riveli la preziosa creazione nascosta o magari l’uomo di Similaun.
L’editor è in una posizione simmetrica e opposta rispetto al lettore: si trova cioè dall’altra parte. Il lettore sta sulla banchina di attracco in attesa dei passeggeri in arrivo, l’editor cura quelli che si apprestano a salire sul ponte per intraprendere il loro viaggio verso porti- librerie dove tenteranno di conquistare i lettori.
Ma spesso le figure del lettore e dell’editor coincidono, giustamente. Si tratta di applicarsi allo stesso oggetto: il libro che potrebbe esserci già, quello che può diventare attraverso un lavoro in tandem tra autore ed editor in una bizzarra e a volte dissimulata zuffa. Perché l’autore accoglie con qualche comprensibile diffidenza o legittima difficoltà il fatto che un tizio gli dica ; questo capitolo è da riscrivere, così non va. Questo passaggio è fiacco, contraddittorio, superfluo. Questo è il vero incipit del capitolo, così, senza avvertenze e presentazioni. E’ un lavoro delicato, a volte scomodo altre volte molto accesso, altre ancora diventa uno scambio ricco e cordiale, utile e prezioso per entrambi.
Dal mio punto di vista la scuola di scrittura può e dovrebbe essere l’intermediario d’elezione deputato a mediare utilmente proprio questo rapporto, e non solo, servirebbe anche efficacemente a chiarire negli aspiranti scrittori il campo effettivo di applicazione del loro talento, oltre che a verificare se un talento ci sia.. Se le scuole di scrittura fossero una presenza diffusa e consolidata in Italia questo tramite sarebbe assai efficace nella fase di selezione, promozione e indirizzo di autori verso un genere letterario, un editore. Non è ancora questo il caso. Nella mia modesta esperienza posso dire che i manoscritti provenienti da autori formati a un laboratorio di scrittura si distinguono dagli altri. Per esempio a prescindere dal valore del loro lavoro, è immediatamente percepibile il fatto che si tratta di un testo più sorvegliato, che si attiene ad alcune regole di base, che cerca di articolarsi in modo coerente, tiene conto della struttura del racconto, adotta uno stile riconoscibile cerca di mantenere un ritmo una tensione. Non è poco. Questa parte diciamo semplicisticamente tecnica può essere appresa, può diventare un esercizio prezioso,come lo è la sorveglianza la percezione critica del proprio testo, sentire come necessario il lavoro di precisazione fa parte ed è indispensabile al lavoro dello scrittore. In questo senso il lavoro delle scuole di scrittura è prezioso perché fornisce una strumentazione e trasmette la necessità di lavorare sul testo. Sfata anche, molto opportunamente il mito dell’ispirazione tal quale che autorizzerebbe a fregiarsi del titolo di opera qualsiasi intruglio magari condito da un linguaggio forbito e stralunato in nome di una autorialità che non necessita di correttivi o interventi nemmeno da parte dell’ispirato.
Si dibatte a questo proposito anche del rischio di una scrittura , magari appunto molto originale e ispirata, che passando attraverso le regole di una cosiddetta accademia, perderebbe per così dire originalità e freschezza. Non credo che sia questo il punto. Si tratta secondo me di un equivoco.
Nella mia idea l’attività didattica di un laboratorio non consiste nell’impartire una sorta di prontuario buono per tutti gli usi, e nella pratica infatti non mi risulta che sia così. Quello che si offre è un piccolo bagaglio di strumenti che viene affidato all’aspirante scrittore il quale poi potrà servirsene. La lingua è uno straordinario strumento ma bisogna imparare a servirsene e le sue infinite potenzialità sono spesso trasmesse dalla lettura dei libri, dal gusto che si raffina si arricchisce e si potenzia via via che accumuliamo letture, buone letture, ma anche letture che impariamo a giudicare mediocri, superficiali, libri mancati. La scuola di scrittura può molto aiutarci in questo esercizio di sensibilizzazione al testo scritto: il nostro e quello che leggiamo. E credo che ci sia la necessità di buoni puntatori, puntatori scelti che liberino dentro scrittori in erba, poeti, romanzieri allo stato embrionale e spontaneo, scrittori che ci diano la luna.