C’era una volta… – senza andare troppo lontani – c’era una volta un’Italia contadina, quella che ancora ricordava la fame patita in guerra; quella in cui le città – soprattutto le grandi città come Roma – erano fatte di inurbati recenti, gente che non aveva ancora perduto le radici di provenienza, che ad ogni occasione trovavano modo di manifestarsi.
C’era quell’Italia e c’era anche la Roma della sora Lella, mitica sorellona del sor Aldo Fabrizi, figura di popolana, buongustaia e poi anche attrice, iniziatrice di un ristorante che ancora esiste, a Roma, tenuto dai suoi eredi.
C’è un film non troppo conosciuto su quella Roma che era sul punto di sparire, di un regista minore. Il film è Trastevere (1971), di Fausto Tozzi, infarcito del romanesco greve e di tutti gli umori scatologici connaturati con l’anima popolana. Una visione del mondo che ora verrebbe etichettata come trash (…non a caso alla riedizione in dvd del film, qualcuno l’ha recensito come Trashtevere!). Bene, all’epilogo del film un gruppo di (non troppo) pie donne con tanto il parroco a bordo, vanno a fare un viaggio di purificazione al ‘Divino Amore’ (altro topos romanesco!); ‘la corriera’ su cui viaggiano ha un guasto e le donne si spargono per la campagna… Al richiamo di una di loro – “Ahò… Coréte..! Qui c’è ‘na miniera de cicoria..! – tutte si precipitano e si mettono carponi a raccogliere l’amata erba. Poi si mettono in cammino a piedi per il santuario… Ma quanto è lontano! Così il pio viaggio finisce a lazzi e vino in una trattoria fuori porta.
Questo nel film; ma basta guardarsi intorno ancora adesso, per esempio sulle strade della domenica. Dovunque ci sia una macchina ferma, a cambiare una ruota, per fare una sosta… se c’è una nonna o una vecchia zia a bordo, non resisterà ad inoltrarsi tra i campi, coltello in una mano e busta di plastica nell’altra, a raccogliere, a seconda della stagione, la misticanza di erbe fresche o l’occorrente per il minestrone o per la minestra di foglie. Tutta ‘grazia-de-ddio’, mandata aggratise, che attende solo l’occasione e il tempo per essere raccolta. Rito apparentemente senza tempo legato alla natura e al buon tempo antico, quando gli alberi grondavano ‘latte e miele’; anche se i luoghi, al tempo d’oggi, ai bordi delle strade a traffico intenso, non sembrano proprio i più salubri per raccogliere erbe.
A pensarci, anche questo un mondo vicino a scomparire.
Per i nostalgici, i piccoli mercati rionali o i grandi mercati cittadini (quello del Trionfale o di Piazza Vittorio [vedi su “O”: Erbe e frutti di piazza Vittorio
del 2.12.07] hanno dei banchi di verdure selvatiche, da consumare lessate o fresche (’a misticanza: il misto di erbe primaverili). Ma la pratica della raccolta, quelle conoscenze di cui le donne sono state sempre detentrici e custodi, si vanno ineluttabilmente perdendo.
Per rimanere su un tema attuale, è recente l’uscita nelle sale di un film di Sean Penn Into the wild, tratto da una storia vera, in cui il giovane personaggio, tra S. Francesco e un hippie, un po’ emulo di Thoureau, si ritrova ‘nelle terre estreme’ dell’Alaska a cercare di sopravvivere del poco che la natura offre nella stagione fredda. E l’errore di riconoscimento di una radice – ritenuta commestibile, mentre invece è tossica – fa precipitare il ragazzo, dopo vomito e dolori, in una condizione di inanizione estrema.
Senza andare così lontano, non è raro imbattersi, al Pronto Soccorso, in pazienti con una sintomatologia da intossicazione da funghi, con un librone sotto il braccio, sul quale mostrano all’incredulo dottore il fungo che secondo loro hanno raccolto, ritenuto responsabile del fattaccio.
– Eppure c’è scritto che è commestibile..!
Certo che il libro è corretto, ma non ci si improvvisa cercatori sui libri! C’è una miriade di caratteri da considerare e l’errore di valutazione è sempre possibile, per gli inesperti.
Per recuperare fiducia e conoscenze, basta allontanarsi dalla grande città; nei paesi e in campagna questo sapere antico si è mantenuto e il contatto dell’uomo con la natura intorno (ambiente, piante, animali) è ben più diretto.
‘Erborinare’ o ‘erborare’ o ‘erborizzare’ sono i termini italiani per indicare la raccolta di piante erbacee spontanee, commestibili o medicinali.
Alle nostre più rustiche latitudini si dice ‘andar per campi’, che è insieme più giocoso e liberatorio; suggerisce ampi orizzonti e magiche scoperte, sui bordi dei fossi, nel folto delle siepi o tra il muschio, nelle parti in ombra degli alberi. Evoca respiri profondi e una corsa ogni tanto, per smuovere le gambe rattrappite dall’essere state troppo a lungo ripiegate sotto una scrivania, mentre gli occhi si muovono su ampi orizzonti, ad un fuoco più distante dello schermo di un computer. Andar per campi è una attitudine e una fortuna, ma prima di tutto una scelta.
In questa stagione (fine gennaio – metà febbraio) dalle nostre parti, in campagna, già da qualche settimana sono comparse le erbe delle insalate primaverili. Le erbe commestibili sono tantissime, ma alcune sono più comuni e tanto diffuse da provare a riconoscerle.
Un consiglio generale riguardo al loro uso è il seguente: sono quasi tutte di sapore forte, profumate e con un carattere deciso; il loro uso ‘a fresco’ è perciò quello di complemento alle insalate dei tipi più comuni (acquistate o coltivate: cappuccina, lattuga, ‘canasta’ e altre ancora…), cui possono dare un tocco incomparabile. Non si usano invece da sole, tranne particolari predilezioni; per esempio certo si può fare un’insalata di sola ruchetta, ma è preferibile utilizzarla per dare più sapore.
Prenderemo ora in considerazione le erbe più diffuse, o famose, da mangiare crude, e poi quelle da consumare preferibilmente lesse.

Il Papavero è un’erba spontanea molto diffusa e tra le più celebrate, in letteratura e soprattutto in pittura; due nomi per tutti: Monet e Van Gogh. Ma ai fini della nostra ricerca è necessario il suo riconoscimento precoce, prima che vada in fiore. In generale – e questo vale per tutte le piante presentate – riconoscere la pianta dal fiore è di gran lunga più semplice che identificarla nella sua forma vegetativa precoce. Partire da zero con questo sistema è un po’ lungo: è necessario diventare curiosi in proposito e quindi aspettare le diverse fioriture. Poi mettere da parte le conoscenze acquisite per l’anno successivo (!). Allora si andrà a colpo sicuro – se si ha buona memoria – a cercare in un posto dove si è già vista, una certa pianta, con quelle foglie e quel sapore.
Molto più facile è andare per erbe – le prime volte – con un cercatore abituale, per essere iniziati ai piccoli segreti della pratica. Cosa abbastanza semplice a farsi in campagna, o chiacchierando tra amici.
Per tornare alle foglie di papavero, esse non hanno particolare sapore o carattere se mangiate fresche, anche se molti le gradiscono come ‘base’, in luogo della comune lattuga; in alternativa possono essere lessate e quindi condite in vario modo (all’agro, olio e limone o soffritte con l’aglio).
Ruchetta coltivata (Eruca sativa – Fam. Cruciferae).
Ruchetta selvatica (Diplotaxis muralis – Fam. Cruciferae). Il sapore tra le due specie di ruchetta è abbastanza simile, leggermente pungente, più forte per la specie selvatica, a maggior ragione se cresce su terreni aridi. Le due specie di ruchetta hanno foglie di diverso aspetto; più larghe e incise nella varietà coltivata; quasi lanceolate nell’altra. Il fiore (4 petali a croce, da cui crucifere!) è bianco nell’Eruca sativa, giallo nella Diplotaxis muralis
Pianta verde, pianta fiorita e fiore di borragine (Borrago officinalis – Fam. Borraginaceae). Il nome deriva dal latino “borra” (tessuto di lana ruvida) e in effetti le foglie sono ruvide, raspose. Mentre la pianta adulta è leggermente spinosa e va consumata lessa, le foglioline giovani in questa stagione si possono mangiare fresche, e hanno un grato sapore di cetriolo
ATTENZIONE ALLA DIGITALE (Digitalis purpurea – Fam. Plantaginaceae, già Scrophulariaceae). La digitale è una pianta medicamentosa e tossica. NON È COMMESTIBILE! E’ qui riportata solo per la possibile confusione con la borragine, quando le due piante non sono ancora fiorite (v. sotto)
Digitale e borragine, qui fotografate vicine tra loro, nel terreno di un giardiniere temerario o particolarmente esperto (…oppure un esteta che ama solo vederle fiorite). La borragine è quella di sinistra nella foto; le foglie sono leggermente più appuntite rispetto alla digitale. Il sapore è nettamente diverso: la borragine sa di cetriolo, la digitale è amarognola
Crisantemo campestre [Chrysanthemum segetum (fiore d’oro dei campi) – Fam. Asteraceae]. Ha foglie profondamente incise, di colore verde con una sfumatura glauca. Il crisantemo è una delle piante più apprezzate per insaporire le insalate primaverili. Il fiore è giallo, simile ad una margherita.
Tordilio o ombrellino pugliese (Tordylium apulum – Fam. Apiaceae). Pianta bassa, di colore verde chiaro. Le foglie tenere si consumano solo fresche; non sono gradevoli se bollite
Per la caratteristica fioritura il tordilio è incluso nella stessa famiglia del prezzemolo e la carota (genericamente Ombrellifere). I fiori, di colore bianco su un lungo stelo, fanno riconoscere in marzo-aprile il tordilio lungo i bordi delle strade; un fiore simile, leggermente più compatto, che si vede invece in giugno-luglio, costituisce l’infiorescenza della carota selvatica (Daucus carota). Nelle insalate primaverile il tordilio è particolarmente apprezzato, profumato, con un sapore appena un po’ dolce
Sanguisorba (Sanguisorba officinalis – Fam. Rosaceae); anche conosciuta come ‘salvastrella’, ‘pimpinella’, ‘pimpirinella’ (!). Deve il suo nome latino all’uso medico, noto fin dall’antichità, di arrestare le emorragie. Ha un particolare sapore, come di noce, che arriva al gusto un attimo dopo che l’incredulità ci ha fatto dire ‘…Ma va’!
Portulaca selvatica (Portulaca oleracea – Fam. Portulacaceae). Piccola pianta ad andamento strisciante; per l’aspetto carnoso, traslucido delle foglie è detta anche porcellana; nota in alcune regioni anche come ‘porcacchia’. Nelle varietà coltivate la portulaca fa bei fiori, di colori diversi, molto diffusi per le bordure estive
Tanaceto o balsamina (Tanacetum balsamina – Fam. Asteraceae). Pianta perenne, che ai nostri climi mantiene le foglie – di color verde tenero – per tutto l’inverno. Molto profumata; ne basta qualche fogliolina, in un’insalata di altre erbe, per darle un tocco riconoscibile, fresco, leggermente amarognolo
Raperonzolo (Campanula rapunculus – Fam. Campanulaceae). Il nome generico descrive la forma del fiore; quello specifico la forma della radice a fittone, simile a una rapa (rapunculus, piccola rapa). Sono commestibili le foglie, ma soprattutto la radice carnosa, dopo averla mondata dai peli
Il raperonzolo è una delle piante più ambite dai cercatori di piante (l’equivalente del porcino per i cercatori di funghi!). Esistono addirittura delle sagre che lo celebrano, come la Sagra del Raperonzolo ( ‘rapunzli’) a Borghi, in Romagna, il 15 aprile. Così viene descritta la tradizione:
“In questo giorno, da tempi che si perdono nella memoria dell’uomo, era consuetudine salire a San Giovanni ( S. Giovanni in Galilea – Ndr) dai paesi vicini, portando ‘sporte’ e ‘legacce’ contenenti salame, uova sode, pagnotte di pasqua e vino. In dolce allegria, all’aperto o nelle osterie, si consumava la propria merenda e alla fine venivano degustati i raperonzoli che i vari osti avevano raccolto e preparato condendoli crudi con olio, aceto e sale.
La distribuzione di questa insalata, tanto gustosa da mangiare quanto rara e difficile da trovare, veniva fatta dagli osti quasi con devozione, per sottolineare la sua preziosità”.
Una usanza piuttosto antica, come si ritrova nella sezione dedicata ( “De’ raponzoli” ) in un libro di cucina del XIV sec.: “Sono eziandio allora buoni i raponzoli, che son certe radicine candide, lunghette e sghiaccide molto; e non pur le radici sole, ma le foglie sono ancor buone. E le radici ancor si deono radere, e crude in insalata si mangiano e con molto gusto delle persone che tal insalata san conoscere. Alcuni ancora nella patria mia ne fann’ottima minestra, cocendole in molto buon brodo di carne con pepe e cacio grattugiato sovra”
Cicoria (Cichorium intybus – Fam. Asteraceae): la pianta verde, con l’aspetto che ha in questa stagione, e i bei fiori blu, che compariranno più in là
I fiori della cicoria sono molto belli, da apprezzare con spirito zen; non si conservano e appassiscono in breve tempo se recisi.
Nei campi dove c’è tanta cicoria, al mattino è un vero tripudio di fiori azzurrini, dalla forma particolare; hanno breve vita, e appena il sole si fa più caldo si chiudono o cadono. Il mattino dopo se ne troveranno altri, fioriti, e cosi per mesi, per tutta l’estate e inizio d’autunno.
Ma vogliamo parlare della cicoria come erba commestibile, quindi prima della fioritura. Nella campagna romana – si può dire in tutto il Centro-sud d’Italia, la cicoria si declina in tutte le possibili voci:
come ‘cicorietta’, ovvero le foglioline fresche, da prelevare al centro della rosetta della pianta per il consumo ‘a crudo’, in insalate cui danno un lieve sapore amarognolo;
come ‘cicoria’, da mangiare lessata, condita in vari modi;
come ‘cicorione’; dai gambi di una delle varietà della pianta – la ‘cicoria catalogna’ – derivano le puntarelle famose della cucina romanesca.
Inoltre, in tempi di autarchia – e ritorniamo ai ricordi dei nostri vecchi – le radici tostate della cicoria erano usate in luogo del caffè, tanto che si dice ancora: “E che! ..E’ cicoria? ” di un caffè particolarmente cattivo.
Molte altre piante sono consumate preferibilmente lesse, sia per il sapore troppo forte o sgradevole a fresco (come il ramolaccio selvatico – vedi in seguito), sia perché dotate di peli urticanti (esempio più comune: l’ortica). La stessa cicoria, a parte un breve periodo all’inizio della primavera in cui si trovano le foglie più tenere, si mangia preferibilmente dopo bollitura in acqua. Le piante che seguono sono tutte commestibili con questa modalità.
Tarassaco o Dente di Leone o Soffione (Taraxacum officinale – Fam. Asteraceae): la pianta verde e un piccolo esemplare con fiori e semi. In basso la stessa pianta con il caratteristico ‘pappo’, una particolare disposizione, leggera e piumosa, dei semi maturi, che verranno trasportati dal vento al minimo soffio (da cui ‘soffione’).
Crispino o crespigna (Sonchus oleraceus – Fam. Asteraceae). E’ una pianta annuale o biennale, con lo stelo che porta i fiori alto fino 50 -70 cm; i capolini di fiori gialli sono riuniti in lassi corimbi.
Ramolaccio selvatico (Raphanus raphanistrum L. – Fam. Cruciferae). Da marzo a giugno, produce fiori bianchi, venati di violetto.
Del ramolaccio selvatico si raccolgono le cime e le foglie della pianta giovane. Nella cucina romanesca la pianta ( ‘e ramoracce) è tenuta in gran conto e talvolta si trova nei mercati; tutte le parti della pianta hanno un tipico sapore piccante, qualora la si assaggi cruda (è evidente la parentela con il rafano), il che conferisce alla verdura, anche lessa, un gusto forte e deciso.

La comune ortica – erba invasiva degli incolti e famosa per le sue caratteristiche urticanti tra i frequentatori della campagna, ma anche dei parchi cittadini – è una apprezzata erba alimentare. La raccolta va effettuata con guanti protettivi, ma la pianta perde questa fastidiosa proprietà durante il lavaggio prolungato e sicuramente dopo bollitura. Se ne fanno minestre, zuppe, risotti e frittate.
Una carrellata, per forza di cose incompleta, sulle erbe spontanee di uso alimentare e l’acquisizione di conoscenze al riguardo può certo essere visto come semplice stravaganza.
Può anche avere altri significati: in una dimensione non cittadina appare del tutto coerente con una vita e un’alimentazione meno innaturali; per qualcuno è un ricordo, la riproposizione di sapori perduti nella memoria (vedi il richiamo proustiano della figura del critico culinario Monsieur Ego, nel recente Ratotouille della Disney-Pixar); può essere vista come una tensione al cambiamento, un risveglio dei sensi in analogia con la natura che si risveglia anch’essa. Tanti altri significati: perfino un interesse conoscitivo o puramente estetico… Cosa dire di una pioggia di petali rossi di papaveri, sparsi su una insalatona verde di campo?
Perché non ci sono solo le erbe… Ci sono anche fiori che si mangiano!
Ma dei fiori parliamo dopo…
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